venerdì 22 dicembre 2017

UN ALTRO RACCONTO DI NATALE

Ne han raccontate tante
di storie del Natale
mica una sola, a palate
ma di questa meno male,
manco una parola, ascoltate
prosa semplice e qualche verso
per l’umana fiaba, mai banale
di chi si immaginava diverso
per scoprirsi infine, uguale
Erano rimasti due uomini all’interno dell’osteria “I briganti”, la sera della vigilia di Natale. Uno stava dietro al banco e ed era Giovanni Pignasecca, l’irascibile e corpulento proprietario del locale chiamato dai clienti più assidui “Esentasse” perché nessuno l’aveva mai visto fare uno scontrino, e l’altro era suo cognato, Franco Dalsenno chiamato “il Verza” perché oltre essere vegetariano si dilettava con la letteratura, con la poesia, e spesso improvvisava versi durante le chiacchierate. I due erano alle prese con la regina delle discussioni, da bar e non solo, di questi ultimi anni, quella che non manca mai, sia che si parlasse di politica o di qualunque altra cosa, ed era la questione “migranti” Naturalmente i due affrontavano l’argomento senza tralasciare né i ma né i se; d’altra parte in qualità di tuttologi, titolo onorario oramai condiviso equamente fra i frequentatori di bar e quelli della rete, era loro consentito, senza alcun timore, di liberare parole senza l’incomodo di una eccessiva riflessione.
“Ma proprio qua, dovevano venire?”
“A casa loro li dobbiamo aiutare, tutta l’Africa in Italia non ci sta, lo vuoi capire o no?!”
“Il lavoro qua non c’è. Prima gli italiani, poi i nero-fumo”.
“Mica han voglia di faticare, questi qua”.
“Arrivano con le pezze al culo e subito pretendono”.
Il corpacciuto Esentasse elencava questo insieme di luoghi comuni con una tale veemenza che i pochi capelli del Verza si muovevano come fili d’erba fustigati dal vento. Il suo volto era così rosso da far pensare che di lì a poco avrebbe preso fuoco.
“Ma scappano dalla miseria, dalla guerra…”, provava timidamente a reagire suo cognato. “Per una promessa di terra…”
Poi prendendo coraggio:
“attraversano il mare,
Rischiano la vita
Per un boccone da mangiare
Per una via d’uscita”.
Ma i suoi toccanti versi non facevano effetto sul sempre più isterico locandiere.
“Non sono affari miei,
e non darmi del razzista
ho pure un amico gay
sei il solito buonista!”
Non si può negare che non gli rispondesse per le rime. E aggiunse senza quasi respirare: “Tutta un’altra cultura dai, guarda come trattano le donne!”.
Ma Franco non era certo un tipo arrendevole:
“Parli proprio tu, santo cielo
Guarda come tratti mia sorella, tua moglie
Certo non la costringi al velo
Ma lasciamo perdere che è meglio”.
E dopo l’assonanza continuò ma ora solo malinconica prosa:
“I popoli ricchi li sfruttano da anni con la complicità dei loro governanti avidi e compiacenti offrendo loro solo povertà e ora che vorrebbero anch’essi la loro piccola parte, quel pizzico di benessere spettante a ogni essere umano, un tozzo di pane, noi li respingiamo verso le braccia dei loro aguzzini, verso un destino infame…”.
“E basta! Lo interruppe nuovamente Giovanni con le vene della fronte rigonfie.
“Ti ripeto che IO non mi sento in colpa, questo è il nostro paese e facciamo entrare solo quelli che ci pare, mica tutti i delinquenti e i vagabondi del pianeta, questi sono islamici, questi buttano le bombe, questi ci tagliano la gola nel sonno… Svegliati!”.
“Sì, sì, continua pure a mettere tutti nello stesso calderone”, pensò Franco. Però sul fatto che si dovesse svegliare in fondo quel “basico” di suo cognato non aveva tutti i torti; doveva smetterla di cercare di usare la ragione con chi preferiva dare sfogo ai propri istinti elementari. Si sentiva svuotato ma anche arrabbiato con se stesso. Perché si era fatto trascinare ancora una volta in questa ennesima e inutile discussione?
Sì allontanò dal banco e si diresse mestamente verso la porta; afferrò la maniglia e prima di uscire si girò verso l’incandescente cognato, disse:
“Ciao Giovanni, ci vediamo più tardi al Cenone”.
L’altro con le mani immerse in un catino d’acqua bofonchiò fra i denti che dopo aver chiuso il locale sarebbe prima andato alla messa delle 23 e 15 e poi li avrebbe raggiunti.
“Già, la messa, vai a confessarti che è meglio”.
“Cosa?”.
“Niente, niente, a dopo” e uscì dalla locanda.
Giovanni, rimasto solo, terminò di sistemare alcune cose e poi tirò fuori l’incasso del giorno disponendolo in piccoli mucchietti sul bancone del bar. Prese un grande astuccio nel cassetto e si chinò per prendere lo zaino che teneva nello sportello sotto alla cassa. Proprio in quel mentre la porta d’ingresso si aprì.
“Cavolo, non ho chiuso” disse a voce alta mentre si rialzava.
Appena vide l’uomo entrare sentì un’ondata di calore in viso. La carnagione dell’ospite inatteso non lasciava dubbi sulla sua provenienza e per il pregiudizio di Giovanni, neppure sulle sue intenzioni.
“Dove credi di andare, non vedi che ore sono? È chiuso!”. Il tono era tutt’altro che amichevole.
L’uomo intanto si era avvicinato e sorridendo disse mettendo una mano nella tasca: “Mi scusi, volevo chiederle se poteva…”.
Ma Giovanni, che ora era uscito da dietro il bancone, non lo fece finire e gli si parò davanti con quel suo torace a due ante. “Ti ho detto che è chiuso…non fare un altro passo altrim…”.
La parola gli rimase per metà in bocca e con una smorfia di dolore si portò una mano al petto e si accasciò a terra come un burattino cui abbiano reciso i fili.
Quando riaprì gli occhi, la luce della stanza, nonostante fosse fioca, gli ferì gli occhi e solo dopo qualche istante riuscì a guardarsi attorno. Era steso in un letto e le ossa gli dolevano in un modo mai provato prima. Le pigre gocce che scivolavano in un tubicino trasparente fino a penetrare nel suo braccio sinistro non lasciavano dubbi sul luogo in cui si trovava ma ulteriore conferma fu l’uomo con il camice bianco che parlava a bassa voce con Franco suo cognato e sua moglie Chiara, vicino alla finestra della stanza.
Era in ospedale, d’accordo, ma perché, cosa gli era accaduto?
Nella sua mente la nebbia si diradò e gli ultimi ricordi si riaffacciarono sufficientemente vividi per scuoterlo dal suo torpore.
“I soldi sul bancone, quel negro, mi ha derubato”.
Quelle parole uscirono dalle sue labbra in modo completamente incomprensibile, un leggero gorgoglio, sufficiente però a destare l’attenzione delle tre persone.
Chiara fu la prima ad avvicinarsi. “Ci hai fatto prendere un bello spavento, questa volta”. Gli appoggiò una mano sula fronte come a saggiarne la temperatura.
Giovanni riprovò a formulare qualche parola ma lo sforzo fu inutile.
“Calma, non ti devi agitare” disse la donna accarezzandogli il viso.
Nel frattempo anche il medico si era avvicinato al capezzale e con un sorriso professionale tastò il polso del paziente. “Signor Pignasecca, il peggio è passato. E’ stato un vero miracolo ma…”.
Giovanni gli prese a sua volta la mano e con un residuo di forze gliela strinse e lo guardò negli occhi con lo sguardo implorante.
“Già, immagino che lei non sappia per quale motivo si trovi sdraiato in un letto d’ospedale” disse il dottore. “Vede ieri sera, verso le 23 lei è stato colto da un infarto del miocardio e …”.
La porta si aprì lentamente e nella stanza si affacciò un uomo; nelle mani una bottiglia d’acqua.
Giovanni lo vide e sgranò gli occhi indicandolo.
“Ecco il suo salvatore” riprese il medico “se non fosse stato per lui, difficilmente staremmo qua a parlare lei ed io; come dicevo poc’anzi, un vero miracolo!” Poi aggiunse sorridendo: “Tra l’altro siamo in tema mi pare, e la sua si può definire a tutti gli effetti una vera e propria rinascita”.
“Pensi” continuò il primario “il caso ha voluto che lei si sentisse male proprio nell’istante in cui il signor John Okore è entrato nel suo bar per chiederle dove si trovasse la Chiesa di S. Francesco avendo l’intenzione di assistere alla funzione della Vigilia ma non conoscendone l’esatto indirizzo. Ma la sua fortuna non è finita lì, il signore essendo pratico di primo soccorso avendo esercitato per tanti anni presso una nota ong si è attivato per farle prontamente un massaggio cardiaco così da tenerla in vita fino all’arrivo del 118 munito di defibrillatore. Ora noi le abbiamo disostruite le arterie e applicato uno stent”. S’interruppe un istante vedendo una specie di smorfia sul viso del paziente pensando che fosse dovuta all’apprensione. ”Non si deve preoccupare, caro Giovanni, l’intervento è perfettamente riuscito; Lei ora deve solo riposare per recuperare le forze; L’importante è che, per almeno ventiquattrore, lei stia il più possibile immobile perché siamo dovuti passare dall’arteria fem…”
Il medico continuava ma Giovanni non lo ascoltava più; mille pensieri come coriandoli impazziti volteggiavano nella sua mente confusa. Guardò l’uomo a cui doveva la vita avvicinarsi sorridendo a sua moglie Chiara e porgerle la bottiglia d’acqua. Anche suo cognato si era accostato al letto e in mano teneva uno zaino, quello stesso zaino dove lui solitamente riponeva l’incasso del giorno. “ Non ti preoccupare per i soldi Giovanni” disse Franco, il signor Okore ha pensato di raccoglierli dal bancone dove li avevi lasciati e ce li ha consegnati appena ci siamo incontrati. Non era il caso di lasciarli lì, in bella vista, no?”.
Giovanni non disse niente. Davvero difficile trovare parole opportune in simili situazioni. Si limitò a fare un segno di assenso con la testa e dal suo volto stanco ma sereno spuntò un abbozzo di sorriso; con gli occhi lucidi cercò quelli dello sconosciuto dalla pelle scura e quando li incontrò finalmente lo riconobbe.

giovedì 27 luglio 2017

LA CONGIURA DI INNOCENZO

Drinnnnn!
“Accidenti!” disse Innocenzo.
Si allontanò, con un passo che contraddiceva del tutto i suoi 84 anni, dal fornello dove cuocevano briosi degli spaghetti e si diresse verso il telefono che, completamente insensibile alle sue faccende culinarie, non smetteva di trillare. Alzò la cornetta. “Pronto!” disse con quel particolare tono di chi si sente a disagio a parlare con un interlocutore senza volto. L’imbarazzo svanì appena sentì la voce dell’operatore di uno di quei call center che ci avvelenano l’esistenza. Ora, di vitale importanza, era trovare il modo, senza essere troppo scortese, di troncare quel flusso di parole impersonali sul nascere, altrimenti… “Guardi, non m’interessa, sono a posto…no, non la faccio parlare perché le ripeto che non ho alcuna intenzione… senta, non mi costringa a essere maleducato… come mi permetto? Mi scusi, sono impegn… ma che vuol dire che anche lei sta lavoran… mica l’ho chiamata io… senta, a queste cose ci pensa mio figlio arrivederci!” Chiusa la comunicazione avvertì il solito malessere, un misto di rabbia e sconforto.
“Gli spaghetti, cazzo!”. Senza neppure spegnere il fuoco afferrò la pentola e la portò sotto l’acqua fredda ma fu tutto inutile: i “vermicelli” avevano oramai l’aspetto di bulimici lombrichi, quindi, invece che nel piatto, li gettò direttamente nel bidone dell’organico che giaceva ai suoi piedi con la “bocca” spalancata, come in attesa.
“Basta!” Sentì una folle energia crescere in lui. Come in un flashback rivide le recenti situazioni in cui si era sentito impotente, a disagio, e constatò che tutte avevano a che fare con la tecnologia, sempre più invadente, spesso deteriore.
Come quando l’operatore della TCM, invece di ridurgli la tariffa, gli fece recapitare un modem di ultimissima generazione, del tutto incompatibile con il vecchio Mac di suo figlio, rara archeologia informatica. Come quando per risolvere un problema amministrativo al telefono, era quasi impazzito seguendo le indicazioni vocali: 1, 2, 5, 9, # e appena dall’altro capo si manifestava una voce pressoché umana, la linea beffardamente cadeva. Come quando, l’altra mattina, mentre passeggiava in bicicletta, una donna alla guida di un suv, che con una mano teneva il volante e con l’altra digitava “funambolescamente” sul cellulare, gli era passata così vicino da consentirgli di percepirne il profumo; per poco non era caduto. Come quando ieri, al bar, mentre stava acquistando un foulard da un simpatico pakistano per regalarlo alla sua giovane nipote, era stato“ripreso” da un individuo con il telefono puntato come una colt 45, che minacciava di denunciarlo alle autorità.
“Basta!” – Ridisse a voce alta – “Il tempo stringe più di una zuppa di carote, e se si possono ingannare gli anni anagrafici, quelli biologici li freghi meno”.
Si mise al tavolo, prese carta e penna e scrisse un piano d’azione: “Piano di resistenza e ribellione dell’anziano con le balle piene contro la teo-tecnologia”. Forse un po’ troppo lungo, pensò.
Una strana luce filtrò dalla sottile fessura tra le palpebre.
1° punto: Riunire tutti gli amici con il cervello non ancora in pappa (per anni aveva lavorato in biblioteca e di esperti di Noir, Gialli e gradazioni varie ne conosceva diversi)
2°: Contattare Occhiolungo e Martello, poliziotto e detenuto in pensione, amici inseparabili e gran lettori, per individuare sedi ed operatori di call center ma soprattutto quei gran figli di una prostata ingrossata dei loro “motivatori”. “Se avete il cuore troppo tenero questo lavoro non fa per voi perché dovete essere aggressivi” dicevano queste m…
3°: Passare all’azione: brevi sequestri dei soggetti succitati; ideale a tale scopo il casolare di quell’eremita di “Alce Nero” (soprannome dovuto non alle sue presunte origini indiane ma al ruolo di capro espiatorio perennemente incazzato che aveva a lungo sostenuto nell’azienda pubblica in cui aveva lavorato per 40 anni). Da anni viveva a Monte Sgrippone, località segnalata solo sulle cartine del CAI di fine ‘800; certamente avrebbe contribuito alla causa con grande piacere.
4°: Nella stanza di “recupero”, del tutto simile a un monolocale, installare numerosi telefoni pronti a squillare ogni volta che il soggetto si accinge a pranzare, dormire o a espletare le proprie funzioni fisiologiche. Una volta alzata la cornetta, una voce registrata ripete in maniera ossessiva assurde proposte commerciali. Es: “È a posto con il gas? Possiamo installarle gratuitamente una centralina direttamente nel wc; ogni sua flatulenza sarà trasformata in energia completamente ecologica” E così via fino alla ritrovata consapevolezza del paziente.
5°: Trattamento similare per alcuni esemplari di virtual men con il pollice in continuo movimento e il capo chino sopra il rettangolo luminoso; perennemente connessi ma completamente scollegati dalla realtà. Dopo un periodo di disintossicazione, saranno sottoposti a un graduale reinserimento nel mondo reale fino al completo recupero dei sensi: caldo, freddo, paura, ansia, ma anche gioia: Dopo qualche giorno di rieducazione i soggetti riusciranno persino a godersi un tramonto, e una folata di vento sul viso parrà un’esperienza indimenticabile.
Innocenzo depose la biro e rilesse quello che aveva appena scritto: “Solo 5 punti e quasi impossibili da realizzare, pura follia”, pensò scoraggiato.
Non c’era più Costanza a risollevargli il morale e ora neppure la sua fervida immaginazione era sufficiente a scrollargli di dosso quell’inquietudine… Mah, meglio lasci…
Drinnn!
Alzò distrattamente la cornetta del telefono: “Pronto?”
“Salve sono Gaglioffo, di nome non di fatto.” Breve risata dell’individuo. “Mi scusi, le posso chiedere che acqua beve, quella del rubinetto o si serve al supermercato… mi perdoni, quale marca? Scusi l’invadenza ma ci sarebbe un nostro agente che proprio nei prossimi…”
“Certo la cosa mi interessa eccome!” Lo interruppe Innocenzo con ritrovata energia. “Mi dica pure quando, lo aspetterò a braccia aperte”.
Una strana luce filtrò dalla sottile fessura tra le palpebre.


mercoledì 24 maggio 2017

Appunti di viaggio


- Buonasera, posso controllare i vostri biglietti?
tre persone occupano i quattro posti a disposizione, il resto borse e sacchetti
Mentre mi porge il suo documento di viaggio un signore corpulento mi chiede con tono che non ammette repliche di fare qualcosa per la temperatura.
Il riscaldamento mi pare sufficientemente funzionante anche se l’aria fresca che esce dal bocchettone proprio sopra alla mia nuca è davvero fastidioso.
Con la dovuta professionalità cerco di spiegare il funzionamento dell’impianto ma vengo bruscamente interrotto dal tizio
- Guardi che non ha capito, QUA SI MUORE DAL CALDO!
- Ah, mi scusi ho frainteso… perché vede proprio qua sopra esce aria fredda e ho pensato che le desse fastidio
- Ma quale aria fredda! mi interrompe - Il fatto è che lei è talmente accaldato che anche il minimo spiffero le sembra gelido
Avrei potuto rispondergli che quella sensazione l’ avrebbe dovuta provare anche lui visto che stava, a suo dire, soffocando ma lascio correre
La signora di fronte a lui
- E poi dopo uno esce e si ammala!
- Già, ne so qualcosa di escursioni termiche visto che faccio continuamente dentro e fuori - dico abbozzando un sorriso ma nei loro volti nessuna empatia
- Comunque ora guardo se posso abbassare un poco…signora il suo biglietto, l’ho già controllato? chiedo all’altra signora seduta accanto al nostro “caloroso” amico
- Ma sì, me lo ha appena visto, lo vuol vedere un’altra volta? - risponde a dir poco scocciata. Nei suoi occhi scorgo due piccole fiammelle che contrastano con il gelo che esce dalla sua bocca.
Ora, lo sappiamo bene che in ognuno di noi convivono diverse personalità, una più amabile, un’altra perfida poi c’è quella imposta dal vivere in società, quella che ci impedisce di scannarci l’un l’altro; diciamo che la differenza fra un carattere ed un altro è solo una questione di percentuali.
Se avessi liberato la mia parte diabolica avrei conficcato senza esitazione due dita negli i occhietti infuocati di quella simpatica donna e girandomi verso l’amabile cagacazzo, con la voce di Beetlejuice, gli avrei detto - Senti Ciccionazzo, mangia un po’ meno e togliti quella cazzo di giacca se hai caldo, senti qualcun altro lamentarsi? Non è che se il tuo capo ti ha rotto le palle sul lavoro poi ti devi sentire autorizzato a fracassarle a tutti noi!
Mentre quella gentile probabilmente avrebbe spostato le borse e i sacchetti, si sarebbe seduto fra di loro e con un sorriso angelico, quasi abbracciandoli avrebbe chiesto
- Cosa c’è che non va? Lo so la vita è difficile ma proviamo a rilassarci, la giornata è finita, prendiamo un libro, guardiamo fuori dal finestrino il mutare del paesaggio o semplicemente sorridiamo ai nostri compagni di viaggio… tra poco arriverete a casa e potrete gustarvi un buon pasto mentre quel povero cristo del capotreno si dovrà accontentare di qualche noce ed un arancio che si è portato da casa perché il suo turno finirà circa a mezzanotte…
Naturalmente quella professionale ha preso il sopravvento
- No, mi scusi signora, non occorre…sa comincio a perdere dei colpi. Ora vado a vedere cosa posso fare, magari abbasso un poco.
Risposta delle due care donne
- Tanto oramai siamo arrivate!
Torno dopo aver abbassato di un grado e lo dico al signore - ci vorrà qualche minuto- ma lui sostiene di sentirsi già meglio…già, metà delle persone è scesa e lui ora è solo; che abbia inciso?
Passo nell’altra carrozza
Buonasera Posso controllare i vostri biglietti?
Giunto a metà della vettura
- Senta non si può far niente per questa aria fredda, potrebbe alzare il riscaldamento
Questa volta ho capito bene
- Guardi signora, lei è proprio sotto il bocchettone e bla bla bla bla
- Sì, sì, poi uno si ammala!
- Senta, accetti il mio consiglio, si sposti in quel posto libero e vedrà che si troverà bene…il suo sguardo pare denso di scetticismo - Mi creda!
Lei mi guarda ma non apre bocca. Proseguo con il mio lavoro.
Arrivato in fondo mi accorgo che la signora non si è mossa.
Entro nell’intercomunicante ma prima di passare nell’altra carrozza, tiro fuori dalla borsa un tabernacolo e diversi amuleti e statuette raffiguranti le più svariate divinità, da quelle Buddiste a quelle indù e a quelle cristiane ortodosse, un poster del Mahatma Gandhi ma anche quello del Grande Lebowski che in quanto ad autocontrollo non ha rivali, e mi concedo qualche minuto di meditazione, che male non fa.

28 febbraio 2017

venerdì 4 novembre 2016

memorie di un lettore


l'altro ieri sull'Indipendente online ho letto questo articolo "sbirciare nei libri degli altri" e mi è tornato in mente una cosa scritta anni fa proprio su questa che ritenevo una mia mania ma che invece pare essere "normale" curiosità di molti appassionati di libri. Niente di che ma la ripropongo per chi avesse voglia di perdere una manciata di minuti, quelli che bastano per leggere queste poche righe.



coitus interruptus

“ E’ libero”?
Domanda davvero stupida visto che nello scompartimento, a parte la ragazza non c’è nessuno.
Lei accenna un lieve sorriso con fare distratto, senza però distogliere lo sguardo da un libro che sta leggendo con particolare attenzione.
Mi lascio cadere pesantemente sul sedile, sollevando un leggero pulviscolo che solletica le narici; accanto, la giovane donna non si scompone. Sembra davvero incatenata a quelle parole che scorrono sotto i suoi occhi grandi e luminosi.
Il mio sguardo annoiato si posa sulle vecchie stampe che ho di fronte, lo faccio sempre quando viaggio in treno. Il convoglio si muove. Dopo alcuni minuti passati a rincorrere pensieri sfuggenti, vengo improvvisamente colto da un’irresistibile e insano desiderio: scoprire di quale sortilegio è vittima la mia occasionale compagna di viaggio.
Cosa diavolo starà leggendo!?
Con fare disinvolto, con “nonchalance”, avvicino la testa a quella riccioluta della ragazza fino a percepirne il profumo fresco, pulito, piacevole. Cerco ora, allungando il collo, di insinuare lo sguardo fra quelle pagine giallognole piegando leggermente la testa di lato ma improvvisamente lei si gira e mi fulmina con uno sguardo più che eloquente! Le sorrido timidamente e mi giro dall’altra parte. Il viso mi si infiamma quando scorgo con la coda dell’occhio che si sta abbottonando la camicetta bianca all’altezza del seno. Vorrei dire qualcosa per giustificarmi, ma taccio.
Il tempo scorre, al di là del vetro il monotono e cadenzato rumore del treno.
L’atmosfera pare ovattata. Le palpebre si fanno pesanti ma invece di abbandonarmi al torpore che pare assalirmi mi scuoto e muovo la testa per sciogliere i muscoli irrigiditi del collo e così mi accorgo che la ragazza si è addormentata con il libro tra le mani.
Di nuovo quell’insana pulsione: questa è la mia ultima possibilità, sussurro ad un altro me stesso. Cautamente, dopo essermi guardato attorno, avanzo con la mano verso il misterioso libello che si alza e si abbassa al ritmo lento del respiro di lei, lo afferro con la punta delle dita e… “ Ma che diavolo stai facendo brutto stronzo?” Con il volume mi sferra in pieno viso una botta che mi lascia intontito per un istante, mi accorgo che sta per colpirmi nuovamente ma riesco a schivare il colpo per un pelo; a salvarmi dalla furia della donna  la brusca e tempestiva fermata del treno. Senza pensarci troppo mi alzo, afferro la mia borsa, esco dallo scompartimento e scendo lestamente dal convoglio.
La vedo dal marciapiede che urla sguaiatamente nella mia direzione, mentre cerca di aprire il finestrino che per fortuna è bloccato. Nella mano destra tiene ancora il libro con la copertina rivolta verso di me… Allora deciso a fare l’ultimo tentativo, mi avvicino a piccoli passi. La ragazza per un attimo è come paralizzata dallo stupore. Ora accelero per paura che il treno se ne vada ma proprio quando la distanza è tale che i miei occhi  miopi riescono a mettere a fuoco le prime lettere  “SOG…” lei, probabilmente terrorizzata, chiude bruscamente la tendina, calando definitivamente il sipario sulla mia curiosità inappagata.
Il treno, con il suo tipico sferragliare, lentamente si rimette in movimento.
Sospiro deluso e mi dirigo verso il tabellone degli orari.
                                                                                                                     (qualche anno fa)

giovedì 13 ottobre 2016

certo oggi si sta meglio rispetto al passato ma prova a fare il bagno nel fiume

progresso, qualche domanda. Per quanto mi riguarda quello tecnologico serve a ben poco, anzi potrebbe pure fare danni se non avviene contemporaneamente a quello del pensiero,  a quella crescita culturale indispensabile affinchè non si manchi mai di riflettere prima di accettare passivamente ogni cambiamento come fosse sia ineluttabile che positivo…lo spirito critico è più che mai necessario e dovrebbe essere continuamente coltivato.  la cosa che viene continuamente sollevata quando si discute di argomenti simili è  che rispetto al passato si viva molto di più, ma raramente ci si sofferma sulla qualità di quella vita… a parte che di quello che accadrà domani, se sarà ancora così, credo sia  difficile prevederlo, viste le condizioni economiche (e non solo) in cui versiamo, siamo davvero sicuri che questo sia sempre e in ogni caso un bene? Certo posso solo fare supposizioni ma da quello che vedo e sento in giro mi pare che molti siano già con il fiato corto a metà strada, demotivati, delusi,…non il male di vivere del poeta melanconico, dell’artista ma quello del criceto in gabbia, che pare non accorgersi della sua condizione, costretto a correre senza spostarsi di un centimetro. Senza la curiosità, la mente aperta, un pizzico di “joie de vivre”, (certo anche la salute e qualche denaro da spendere) penso sia inutile arrivare a 100 anni perché se hai vissuto con il cuore cieco per 40 anni temo che difficilmente comincerai a vedere negli anni successivi.    


"Be', devo essere ottimista. Va bene, dunque, perché vale la pena di vivere? Ecco un'ottima domanda. Be', esistono al mondo alcune cose, credo, per cui valga la pena di vivere. E cosa? Ok. Per me... io direi... il buon vecchio Groucho Marx tanto per dirne una, e Joe DiMaggio e... il secondo movimento della sinfonia Jupiter... Louis Armstrong, l'incisione Potato Head Blues... i film svedesi naturalmente... L'educazione sentimentale di Flaubert... Marlon Brando, Frank Sinatra, quelle incredibili... mele e pere dipinte da Cézanne, i granchi da Sam Wo, il viso di Tracy.." (Woody allen da Manhattan, 1979)

venerdì 7 ottobre 2016

La condivisione del dolore

c’è stato un tempo che i dentisti prendevano alla lettera la loro denominazione popolare: cavadenti. e  li cavavano eccome! a undici anni me ne avevano estratti già tre e la cosa purtroppo è durata ancora per una decina d’anni fino quando poi c’è stata un’ inversione di tendenza… cercare di recuperare mantenere in vita anche il più piccolo residuo di dente e allora via cure, devitalizzazioni, detartrasi  ecc. ecc. salvare il salvabile insomma. fino a quando non c’è più nulla da salvare. allora non resta che la ricostruzione, non prima di aver demolito i residui naturalmente. la cosa fantastica del dentista è che paghi, neanche poco, per soffrire, neanche poco ... ma torniamo al dunque; dunque due giorni  fa, trascorso il periodo necessario per l’intervento, ricrescita ossea, impronte, ecc. ecc.  mi hanno posizionato due impianti comprensivi di componentistica e moncone implantare (oh, c’è scritto così)…in pratica hanno tagliato la gengiva, raschiato, trapanato e avvitato dei coni in titanio nella mia mandibola poi il medico sapiente ha ricucito in modo mirabile il tutto. risultato è che ora sembro un Pitcher prima del lancio con ancora  in bocca una palla di tabacco da masticare, affetto da una tonsillite acuta e vado avanti con antibiotici e Oki…dovrei metterne un altro dall’altra parte... mmmh, mi sa che aspetto!

giovedì 15 settembre 2016

Cold cold Ground


  Il mio avvicinamento a Tom Waits è avvenuto tardi (1987), indirettamente grazie a Fabio che aveva allora tre anni. No, non era, allora, un enfant prodige. Ora spiego; tutto molto semplice. Eravamo andati, Cinzia ed io in un negozio Prenatal, in via Soardi a Rimini. Dopo aver fatto acquisti, mentre mia moglie si attardava, esco in strada a fumarmi una sigaretta (già, allora avevo questa abitudine…bei tempi!) e dagli altoparlanti del negozio di dischi situato proprio davanti al baby store parte una ballata mai sentita. La voce del cantante è calda e profonda, la musica semplice ma coinvolgente, basso chitarra poi entrava la fisarmonica “Cold Cold Ground “ ripeteva ad ogni strofa quella voce così cavernosa che pareva provenire proprio dalle viscere di quella terra di cui stava cantando. Esce Cinzia, la chiamo e le dico di ascoltare. Fu amore a primo ascolto.
Ancora oggi, quello rimane per noi un brano speciale, il primo boccone di quello che si sarebbe poi rivelato un piatto davvero delizioso.
Entrammo subito al New Note e chiedemmo di chi si trattasse. “Tom Waits, forse l’unico bianco che può permettersi di cantare blues” risponde uno dei proprietari di quel piccolo negozio che di lì a poco sarebbe diventato il “mio negozio” ( purtroppo oggi non c’è più) dove avrei trascorso gran parte del mio tempo. “lo prendo! Ce l’hai la cassetta?” (allora possedevo solo una piastra di registrazione) “No, purtroppo no, ho solo l’LP, su nastro però ho Rain Dogs, il suo album precedente, molto bello… Franks Wid Years mi arriverà la prossima settimana” Bene, ma siccome avevo le fregole e non volevo rimanere sulle spine per sette lunghi giorni acquistai Rain Dogs, che ad essere onesto, al primo ascolto risultò un poco coriaceo, non avevo ancora tarato l’orecchio su certe frequenze, ma poi…ma poi è tutta un’altra storia.

mercoledì 14 settembre 2016

genesi di un dipinto

Ricordo ancora la genesi di quel dipinto. Allora dipingevo su tavole di compensato intelaiate e nonostante avessi dato una mano di fondo le trame del legno mi portavano in una direzione  che non avevo alcuna intenzione di seguire. La mostra era davvero singolare, si protraeva  per tre settimane, tre artisti, una settimana per ciascuno; l’esposizione era visibile al pubblico unicamente dalle 20 alle 23 e si intitolava “terra d’ombra”. Avevo deciso che la mia installazione sarebbe consistita in un grande quadro posizionato dietro l’altare di  Santa Marina, piccola e suggestiva chiesa romanica di Novafeltria, ma ancora non sapevo cosa avrei dipinto. Ricordo i diversi tentativi e la difficoltà a creare un lavoro che avesse una sua forza spirituale ma che non fosse troppo didascalico finché non decisi di raschiare tutto e di ricominciare da capo lasciandomi completamente guidare da quello che i miei occhi vedevano su quella tavola di legno. La magia della pittura è proprio questa, a volte basta un segno, una macchia per  trovare la strada giusta, una strada che non avevi preso in considerazione. Nonostante avessi dipinto quello che pareva essere a tutti gli effetti  un cielo notturno, ancora non sapevo che da quel  lavoro avrei intrapeso una particolare ricerca sulle nuvole che ancora oggi nonostante diverse divagazioni, continua ad affascinarmi. Tutto cominciò una di quelle sere di settembre, di ritorno a rimini. Il cielo era coperto, rischiarato solo dalla flebile luce di una  luna prigioniera . Fu Franco che mi disse: guarda sembra il tuo cielo.

Un anno dopo, settembre 2005, nella Galleria Dell'Immagine di Rimini inaugurai Animus

giovedì 8 settembre 2016

un piccolo racconto riesumato




Sette



Il numero sette era il suo  numero preferito. Non per un particolare motivo, l'aveva scelto così, inconsciamente, tanti anni fa. Non c'entravano i sette peccati capitali, le sette note musicali o i colori dell'arcobaleno, no, niente di tutto questo. Una sola cosa, fra le tante che aveva scoperto attorno al suo numero portafortuna  o intrigava:  il sette veniva  considerato attraverso uno strano calcolo, un numero "felice". . A parte questo, ripeto, non esisteva niente di misterioso, di esoterico dietro a quella scelta...  Quello che più lo affascinava di quel numero era l'asciuttezza e la semplicità del segno grafico.  Il 6, il 9, l'8  sono numeri svelti  e un po' ruffiani con le loro curve ammiccanti  mentre il 7  no, niente salamelecchi, rigido, spigoloso non cerca di farsi amare a tutti i costi,  perciò chi lo sceglie lo fa accettandolo così com'è punto e basta. 

Anche gli uomini, Giuliano li giudicava con il medesimo metro e fu probabilmente per questo motivo che diventai il suo amico più fidato. Adorava le persone  lievemente antipatiche, più per timidezza che per arroganza, "un po' riservate che parlano poco ma che quando lo fanno devi prendere nota sul taccuino"  mi diceva  "l'essere taciturno rende l'uomo maggiormente affidabile" continuava. Quando raramente gli capitava di incontrarne qualcuno diceva sempre: "ecco un bel sette, mi piace".

Spesso mi raccontava quanto quel numero fosse stato presente in molti momenti della sua vita: a sette anni, la prima bici, durante le partite a pallone aveva sempre ricoperto il ruolo della mezzala con il numero 7 sulla maglietta, alle superiori aveva deciso che la media del sette fosse un risultato più che dignitoso - anche se alcuni insegnanti lo consideravano poco ambizioso -, 7 era il numero dell'autobus che lo portava a scuola, sette le donne della sua vita, l'ultima si chiamava Iris, e così via. Aveva addirittura cambiato il suo nome di battesimo, di otto lettere, da Giuliano  a Giulian" un po' meno provinciale, non trovi? " si giustificava. Anche se non lo ammetteva, quel numero era diventato per lui una vera ossessione e si sa, come  spesso le fissazioni scaramantiche possano condizionare lo svolgere della vita.

Ora  in quel preciso momento si trovava chiuso in un ascensore diretto al settimo piano di un vecchio  edificio totalmente occupato da uffici, civicamente situato al numero 7 di via Tarquinio Prisco (uno dei sette re di Roma). Nonostante fosse domenica, eri lì per lavoro.  A volte gli capitava di riflettere  su quella sua professione così insolita che svolgeva con grande dedizione da poco più di un anno ma con indubbia  predisposizione, visti i risultati piuttosto incoraggianti ottenuti. Certo la meticolosità, la precisione e la freddezza tipica del suo carattere lo avevano sicuramente aiutato.
Giulian era un Killer, un ottimo Killer.
  
Si era recato  in quel vecchio palazzo, nonostante fosse un giorno festivo per portare a termine – parola più che appropriata – questo nuovo e decisivo “incarico”. “Il prossimo sarà l’ultimo e poi basta" mi aveva confidato " ho già messo via un bel po' di quattrini e ho anche prenotato un volo per le Mauritius… Mi aspettano....”.
 "Un posto?!... e Iris?” gli avevo chiesto
“Iris mi ha stancato, sta diventando asfissiante, naturalmente non sospetta nulla, e per questo che la valigia con i contanti è meglio se la tieni tu… e poi non vorrei abusare della fortuna, l' ultima volta c'è mancato tanto così ".
In effetti, aveva accettato quest'ultimo affare con non poca  riluttanza - la precedente"commissione" aveva presentato notevoli difficoltà - ma i soldi in ballo questa volta erano davvero molti e poi lo tranquillizzavano tutti quei 7:  numero civico, settimo piano, settimo incarico, settimo giorno della settimana... quel numero gli aveva sempre portato fortuna e, ne era fortemente convinto, lo avrebbe fatto anche questa volta. Aveva ripassato il piano nei minimi dettagli: il "soggetto" ogni giorno, immancabilmente, compreso la domenica si fermava nel suo studio per pianificare personalmente il lavoro per la giornata successiva e lo stabile a quell'ora era completamente deserto. Tutto nella sua mente era stato calcolato nel minimo dettaglio, come al solito. Certo se non ci fosse stato quell'imprevisto dell'ascensore sarebbe stato perfetto perché niente gli procurava ansia come il salire su un ascensore.  Si sentiva in trappola dentro quella scatola e lo innervosiva essere in balia di quel mezzo meccanico, lungo o corto fosse il tragitto. Solitamente preferiva salire le scale a piedi " per tenermi in forma "  - diceva, ma in realtà non sopportava di restare chiuso  in quel parallelepipedo scricchiolante, gli mancava l'aria ma  soprattutto temeva di precipitare, che i cavi all'improvviso potessero cedere.
Immaginava la discesa verso l'inferno e sentiva tutta l'impotenza dell'uomo. "almeno avessero messo delle sbarre, quassù in alto, così da potersi attaccare nell’attesa dell'impatto".... Queste e altre assurdità vagavano nella sua mente ogni volta che ne prendeva uno. Odiava non avere il controllo totale sulle cose.
Questa volta non aveva avuto scelta: un triplo nastro bianco e rosso sbarrava l'accesso alle scale e un cartello ne indicava l'inaccessibilità a causa di una manutenzione straordinaria.
A malincuore si era visto costretto ad usufruire di quel montacarichi dall'aspetto poco rassicurante.
Con la mano inguantata aveva schiacciato nervosamente il pulsante con su stampigliato il numero sette e l'ascesa era cominciata.
Fu in prossimità del sesto piano che quello che aveva sempre temuto accadde: l'ascensore rallentò fino a fermarsi, si sentì un sibilo assordante  simile al fischio del treno seguito da un rumore di ferraglia e un istante dopo, con un grido lancinante l'ascensore precipitò.
Ci mise 7 secondi a fracassarsi al suolo.
In quella frazione di tempo, Giulian non ebbe il tempo di formulare il ben che minimo pensiero.
Ma anche se generosamente gli fosse stato concesso qualche minuto ancora, difficilmente avrebbe realizzato che quella sua triste fine non era dovuta semplicemente ad uno scherzo del destino, ad un lancio di dadi sbagliato.


difficilmente avrebbe realizzato  che Iris si era accorta da tempo del calo di passione nei suoi confronti
difficilmente avrebbe realizzato che io, l’amico fedele ero diventato il suo amante
difficilmente avrebbe realizzato che subito dopo la sua confidenza di voler sparire con tutti i soldi io ed Iris abbiamo organizzato il nostro piano
difficilmente avrebbe realizzato che eravamo stati noi a ingaggiarlo per quell'incarico  e infine
difficilmente avrebbe realizzato che il cartello posto davanti alle scale si riferiva all'ascensore: era  bastato semplicemente spostarlo… 
Beh, ad essere sinceri, qualche bullone l’ho allentato, così per precauzione, sette per la precisione.

Iris era la tua settima donna, caro Giulian e tu l'hai tradita infrangendo così l'ultimo dei sette sigilli


Stefano Mina