domenica 6 ottobre 2013

la critica cinematografica ha ancora un senso?

Spesso si tende ad uniformare i gusti dei critici cinematografici diffidando delle loro opinioni spesso giudicate troppo selettive perché non tengono conto del gusto del pubblico. Purtroppo temo che da tempo non sia più così. Personalmente da un cosiddetto esperto mi aspetto comunque una valutazione, una recensione che non sia banale, un punto di vista diverso, non importa se condivisibile o meno ma che almeno non dia l'impressione di cercare un facile consenso, quello della maggioranza. Da qualche anno mi pare che -anche- la critica sia poco incline a seguire questa strada e piuttosto che offrire un punto di vista " altro"  che possa essere da stimolo preferisca compiacere la pubblica opinione giustificandola in ogni sua scelta, anche la peggiore. Ecco allora lo sdoganamento di alcuni film che, pur offrendo dal punto di vista sociologico numerosi spunti, dal punto di vista strettamente cinematografico sia per le qualità tecniche che per quelle attoriali rimangono prodotti mediocri se non pessimi.
 C'e' stato un tempo che i critici sembravano tendere ad essere antipatici e saccenti a tutti i costi ora invece pare l'esatto contrario; forse gli errori commessi nel passato, la poca lungimiranza nel giudicare attori come Totò, registi come Billy Wilder, come Hitchcock pesano ancora. Ma assecondando continuamente gli spettatori, soprattutto quelli di bocca buona, per vendere giornali, per rendersi più "simpatici" si rischia davvero di rendere inutile la funzione del critico che dovrebbe fare da tramite tra il lavoro cinematografico e lo spettatore dandogli una lettura magari meno emotiva ma forse più sfaccettata, per solleticare la curiosità di chi ama ancora il cinema. Più si assaggia, più si impara ad affinare il gusto; la conoscenza deve/dovrebbe essere nutrita non certo contenuta. 
Ad avallare questa mia tesi, poche righe rubate all'articolo di Mauro Gervasini, direttore di film TV in apertura del nuovo numero della nota rivista cinematografica: pare che un critico del Corriere della sera  abbia definito "fortunati " gli spettatori della retrospettiva  milanese  sui film di Venezia che non avrebbero visto Jiaoyou (cani randagi)  di Tsai Ming-Liang perché  non inserito nel programma. Al di là dell'opinione personale del signore in questione credo sia poco rispettoso nei confronti di chi il film l'ha fatto e del pubblico della rassegna che se ne avesse avuta l'opportunità magari una  propria opinione in merito se la sarebbe fatta.  Ora io il film non l'ho ancora visto ma immagino che, visto il commento commosso dello stesso regista durante la premiazione volto a ringraziare la giuria per la pazienza e la generosità dimostrata nell'aver scelto un film così  lento e non certo facile, sia davvero un film, purtroppo, per pochi (almeno nel nostro paese); non per scelta premeditata del regista che immagino ambirebbe  oltre a ricevere premi anche ad allargare il proprio pubblico, regista che per quel poco che so di lui non difetta certo di umiltà e di onestà intellettuale (vedere qualche sua intervista) ma  semplicemente perché gran parte del pubblico italico, un po' per pigrizia ma anche per poca dimestichezza con un certo tipo di cinema che viene distribuito poco e male (spesso per niente) e soprattutto poco pubblicizzato, contrariamente a quanto accade con certi blockbuster  americani, anche quando questi sono poca cosa o con alcuni prodotti nostrani non sempre degni di nota.  (ricordo ancora l'uscita tardiva del film The Road tratto dall'omonimo libro di Cormac McCarthy perché ritenuto troppo triste per gli italiani)