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venerdì 22 dicembre 2017

UN ALTRO RACCONTO DI NATALE

Ne han raccontate tante
di storie del Natale
mica una sola, a palate
ma di questa meno male,
manco una parola, ascoltate
prosa semplice e qualche verso
per l’umana fiaba, mai banale
di chi si immaginava diverso
per scoprirsi infine, uguale
Erano rimasti due uomini all’interno dell’osteria “I briganti”, la sera della vigilia di Natale. Uno stava dietro al banco e ed era Giovanni Pignasecca, l’irascibile e corpulento proprietario del locale chiamato dai clienti più assidui “Esentasse” perché nessuno l’aveva mai visto fare uno scontrino, e l’altro era suo cognato, Franco Dalsenno chiamato “il Verza” perché oltre essere vegetariano si dilettava con la letteratura, con la poesia, e spesso improvvisava versi durante le chiacchierate. I due erano alle prese con la regina delle discussioni, da bar e non solo, di questi ultimi anni, quella che non manca mai, sia che si parlasse di politica o di qualunque altra cosa, ed era la questione “migranti” Naturalmente i due affrontavano l’argomento senza tralasciare né i ma né i se; d’altra parte in qualità di tuttologi, titolo onorario oramai condiviso equamente fra i frequentatori di bar e quelli della rete, era loro consentito, senza alcun timore, di liberare parole senza l’incomodo di una eccessiva riflessione.
“Ma proprio qua, dovevano venire?”
“A casa loro li dobbiamo aiutare, tutta l’Africa in Italia non ci sta, lo vuoi capire o no?!”
“Il lavoro qua non c’è. Prima gli italiani, poi i nero-fumo”.
“Mica han voglia di faticare, questi qua”.
“Arrivano con le pezze al culo e subito pretendono”.
Il corpacciuto Esentasse elencava questo insieme di luoghi comuni con una tale veemenza che i pochi capelli del Verza si muovevano come fili d’erba fustigati dal vento. Il suo volto era così rosso da far pensare che di lì a poco avrebbe preso fuoco.
“Ma scappano dalla miseria, dalla guerra…”, provava timidamente a reagire suo cognato. “Per una promessa di terra…”
Poi prendendo coraggio:
“attraversano il mare,
Rischiano la vita
Per un boccone da mangiare
Per una via d’uscita”.
Ma i suoi toccanti versi non facevano effetto sul sempre più isterico locandiere.
“Non sono affari miei,
e non darmi del razzista
ho pure un amico gay
sei il solito buonista!”
Non si può negare che non gli rispondesse per le rime. E aggiunse senza quasi respirare: “Tutta un’altra cultura dai, guarda come trattano le donne!”.
Ma Franco non era certo un tipo arrendevole:
“Parli proprio tu, santo cielo
Guarda come tratti mia sorella, tua moglie
Certo non la costringi al velo
Ma lasciamo perdere che è meglio”.
E dopo l’assonanza continuò ma ora solo malinconica prosa:
“I popoli ricchi li sfruttano da anni con la complicità dei loro governanti avidi e compiacenti offrendo loro solo povertà e ora che vorrebbero anch’essi la loro piccola parte, quel pizzico di benessere spettante a ogni essere umano, un tozzo di pane, noi li respingiamo verso le braccia dei loro aguzzini, verso un destino infame…”.
“E basta! Lo interruppe nuovamente Giovanni con le vene della fronte rigonfie.
“Ti ripeto che IO non mi sento in colpa, questo è il nostro paese e facciamo entrare solo quelli che ci pare, mica tutti i delinquenti e i vagabondi del pianeta, questi sono islamici, questi buttano le bombe, questi ci tagliano la gola nel sonno… Svegliati!”.
“Sì, sì, continua pure a mettere tutti nello stesso calderone”, pensò Franco. Però sul fatto che si dovesse svegliare in fondo quel “basico” di suo cognato non aveva tutti i torti; doveva smetterla di cercare di usare la ragione con chi preferiva dare sfogo ai propri istinti elementari. Si sentiva svuotato ma anche arrabbiato con se stesso. Perché si era fatto trascinare ancora una volta in questa ennesima e inutile discussione?
Sì allontanò dal banco e si diresse mestamente verso la porta; afferrò la maniglia e prima di uscire si girò verso l’incandescente cognato, disse:
“Ciao Giovanni, ci vediamo più tardi al Cenone”.
L’altro con le mani immerse in un catino d’acqua bofonchiò fra i denti che dopo aver chiuso il locale sarebbe prima andato alla messa delle 23 e 15 e poi li avrebbe raggiunti.
“Già, la messa, vai a confessarti che è meglio”.
“Cosa?”.
“Niente, niente, a dopo” e uscì dalla locanda.
Giovanni, rimasto solo, terminò di sistemare alcune cose e poi tirò fuori l’incasso del giorno disponendolo in piccoli mucchietti sul bancone del bar. Prese un grande astuccio nel cassetto e si chinò per prendere lo zaino che teneva nello sportello sotto alla cassa. Proprio in quel mentre la porta d’ingresso si aprì.
“Cavolo, non ho chiuso” disse a voce alta mentre si rialzava.
Appena vide l’uomo entrare sentì un’ondata di calore in viso. La carnagione dell’ospite inatteso non lasciava dubbi sulla sua provenienza e per il pregiudizio di Giovanni, neppure sulle sue intenzioni.
“Dove credi di andare, non vedi che ore sono? È chiuso!”. Il tono era tutt’altro che amichevole.
L’uomo intanto si era avvicinato e sorridendo disse mettendo una mano nella tasca: “Mi scusi, volevo chiederle se poteva…”.
Ma Giovanni, che ora era uscito da dietro il bancone, non lo fece finire e gli si parò davanti con quel suo torace a due ante. “Ti ho detto che è chiuso…non fare un altro passo altrim…”.
La parola gli rimase per metà in bocca e con una smorfia di dolore si portò una mano al petto e si accasciò a terra come un burattino cui abbiano reciso i fili.
Quando riaprì gli occhi, la luce della stanza, nonostante fosse fioca, gli ferì gli occhi e solo dopo qualche istante riuscì a guardarsi attorno. Era steso in un letto e le ossa gli dolevano in un modo mai provato prima. Le pigre gocce che scivolavano in un tubicino trasparente fino a penetrare nel suo braccio sinistro non lasciavano dubbi sul luogo in cui si trovava ma ulteriore conferma fu l’uomo con il camice bianco che parlava a bassa voce con Franco suo cognato e sua moglie Chiara, vicino alla finestra della stanza.
Era in ospedale, d’accordo, ma perché, cosa gli era accaduto?
Nella sua mente la nebbia si diradò e gli ultimi ricordi si riaffacciarono sufficientemente vividi per scuoterlo dal suo torpore.
“I soldi sul bancone, quel negro, mi ha derubato”.
Quelle parole uscirono dalle sue labbra in modo completamente incomprensibile, un leggero gorgoglio, sufficiente però a destare l’attenzione delle tre persone.
Chiara fu la prima ad avvicinarsi. “Ci hai fatto prendere un bello spavento, questa volta”. Gli appoggiò una mano sula fronte come a saggiarne la temperatura.
Giovanni riprovò a formulare qualche parola ma lo sforzo fu inutile.
“Calma, non ti devi agitare” disse la donna accarezzandogli il viso.
Nel frattempo anche il medico si era avvicinato al capezzale e con un sorriso professionale tastò il polso del paziente. “Signor Pignasecca, il peggio è passato. E’ stato un vero miracolo ma…”.
Giovanni gli prese a sua volta la mano e con un residuo di forze gliela strinse e lo guardò negli occhi con lo sguardo implorante.
“Già, immagino che lei non sappia per quale motivo si trovi sdraiato in un letto d’ospedale” disse il dottore. “Vede ieri sera, verso le 23 lei è stato colto da un infarto del miocardio e …”.
La porta si aprì lentamente e nella stanza si affacciò un uomo; nelle mani una bottiglia d’acqua.
Giovanni lo vide e sgranò gli occhi indicandolo.
“Ecco il suo salvatore” riprese il medico “se non fosse stato per lui, difficilmente staremmo qua a parlare lei ed io; come dicevo poc’anzi, un vero miracolo!” Poi aggiunse sorridendo: “Tra l’altro siamo in tema mi pare, e la sua si può definire a tutti gli effetti una vera e propria rinascita”.
“Pensi” continuò il primario “il caso ha voluto che lei si sentisse male proprio nell’istante in cui il signor John Okore è entrato nel suo bar per chiederle dove si trovasse la Chiesa di S. Francesco avendo l’intenzione di assistere alla funzione della Vigilia ma non conoscendone l’esatto indirizzo. Ma la sua fortuna non è finita lì, il signore essendo pratico di primo soccorso avendo esercitato per tanti anni presso una nota ong si è attivato per farle prontamente un massaggio cardiaco così da tenerla in vita fino all’arrivo del 118 munito di defibrillatore. Ora noi le abbiamo disostruite le arterie e applicato uno stent”. S’interruppe un istante vedendo una specie di smorfia sul viso del paziente pensando che fosse dovuta all’apprensione. ”Non si deve preoccupare, caro Giovanni, l’intervento è perfettamente riuscito; Lei ora deve solo riposare per recuperare le forze; L’importante è che, per almeno ventiquattrore, lei stia il più possibile immobile perché siamo dovuti passare dall’arteria fem…”
Il medico continuava ma Giovanni non lo ascoltava più; mille pensieri come coriandoli impazziti volteggiavano nella sua mente confusa. Guardò l’uomo a cui doveva la vita avvicinarsi sorridendo a sua moglie Chiara e porgerle la bottiglia d’acqua. Anche suo cognato si era accostato al letto e in mano teneva uno zaino, quello stesso zaino dove lui solitamente riponeva l’incasso del giorno. “ Non ti preoccupare per i soldi Giovanni” disse Franco, il signor Okore ha pensato di raccoglierli dal bancone dove li avevi lasciati e ce li ha consegnati appena ci siamo incontrati. Non era il caso di lasciarli lì, in bella vista, no?”.
Giovanni non disse niente. Davvero difficile trovare parole opportune in simili situazioni. Si limitò a fare un segno di assenso con la testa e dal suo volto stanco ma sereno spuntò un abbozzo di sorriso; con gli occhi lucidi cercò quelli dello sconosciuto dalla pelle scura e quando li incontrò finalmente lo riconobbe.

giovedì 27 luglio 2017

LA CONGIURA DI INNOCENZO

Drinnnnn!
“Accidenti!” disse Innocenzo.
Si allontanò, con un passo che contraddiceva del tutto i suoi 84 anni, dal fornello dove cuocevano briosi degli spaghetti e si diresse verso il telefono che, completamente insensibile alle sue faccende culinarie, non smetteva di trillare. Alzò la cornetta. “Pronto!” disse con quel particolare tono di chi si sente a disagio a parlare con un interlocutore senza volto. L’imbarazzo svanì appena sentì la voce dell’operatore di uno di quei call center che ci avvelenano l’esistenza. Ora, di vitale importanza, era trovare il modo, senza essere troppo scortese, di troncare quel flusso di parole impersonali sul nascere, altrimenti… “Guardi, non m’interessa, sono a posto…no, non la faccio parlare perché le ripeto che non ho alcuna intenzione… senta, non mi costringa a essere maleducato… come mi permetto? Mi scusi, sono impegn… ma che vuol dire che anche lei sta lavoran… mica l’ho chiamata io… senta, a queste cose ci pensa mio figlio arrivederci!” Chiusa la comunicazione avvertì il solito malessere, un misto di rabbia e sconforto.
“Gli spaghetti, cazzo!”. Senza neppure spegnere il fuoco afferrò la pentola e la portò sotto l’acqua fredda ma fu tutto inutile: i “vermicelli” avevano oramai l’aspetto di bulimici lombrichi, quindi, invece che nel piatto, li gettò direttamente nel bidone dell’organico che giaceva ai suoi piedi con la “bocca” spalancata, come in attesa.
“Basta!” Sentì una folle energia crescere in lui. Come in un flashback rivide le recenti situazioni in cui si era sentito impotente, a disagio, e constatò che tutte avevano a che fare con la tecnologia, sempre più invadente, spesso deteriore.
Come quando l’operatore della TCM, invece di ridurgli la tariffa, gli fece recapitare un modem di ultimissima generazione, del tutto incompatibile con il vecchio Mac di suo figlio, rara archeologia informatica. Come quando per risolvere un problema amministrativo al telefono, era quasi impazzito seguendo le indicazioni vocali: 1, 2, 5, 9, # e appena dall’altro capo si manifestava una voce pressoché umana, la linea beffardamente cadeva. Come quando, l’altra mattina, mentre passeggiava in bicicletta, una donna alla guida di un suv, che con una mano teneva il volante e con l’altra digitava “funambolescamente” sul cellulare, gli era passata così vicino da consentirgli di percepirne il profumo; per poco non era caduto. Come quando ieri, al bar, mentre stava acquistando un foulard da un simpatico pakistano per regalarlo alla sua giovane nipote, era stato“ripreso” da un individuo con il telefono puntato come una colt 45, che minacciava di denunciarlo alle autorità.
“Basta!” – Ridisse a voce alta – “Il tempo stringe più di una zuppa di carote, e se si possono ingannare gli anni anagrafici, quelli biologici li freghi meno”.
Si mise al tavolo, prese carta e penna e scrisse un piano d’azione: “Piano di resistenza e ribellione dell’anziano con le balle piene contro la teo-tecnologia”. Forse un po’ troppo lungo, pensò.
Una strana luce filtrò dalla sottile fessura tra le palpebre.
1° punto: Riunire tutti gli amici con il cervello non ancora in pappa (per anni aveva lavorato in biblioteca e di esperti di Noir, Gialli e gradazioni varie ne conosceva diversi)
2°: Contattare Occhiolungo e Martello, poliziotto e detenuto in pensione, amici inseparabili e gran lettori, per individuare sedi ed operatori di call center ma soprattutto quei gran figli di una prostata ingrossata dei loro “motivatori”. “Se avete il cuore troppo tenero questo lavoro non fa per voi perché dovete essere aggressivi” dicevano queste m…
3°: Passare all’azione: brevi sequestri dei soggetti succitati; ideale a tale scopo il casolare di quell’eremita di “Alce Nero” (soprannome dovuto non alle sue presunte origini indiane ma al ruolo di capro espiatorio perennemente incazzato che aveva a lungo sostenuto nell’azienda pubblica in cui aveva lavorato per 40 anni). Da anni viveva a Monte Sgrippone, località segnalata solo sulle cartine del CAI di fine ‘800; certamente avrebbe contribuito alla causa con grande piacere.
4°: Nella stanza di “recupero”, del tutto simile a un monolocale, installare numerosi telefoni pronti a squillare ogni volta che il soggetto si accinge a pranzare, dormire o a espletare le proprie funzioni fisiologiche. Una volta alzata la cornetta, una voce registrata ripete in maniera ossessiva assurde proposte commerciali. Es: “È a posto con il gas? Possiamo installarle gratuitamente una centralina direttamente nel wc; ogni sua flatulenza sarà trasformata in energia completamente ecologica” E così via fino alla ritrovata consapevolezza del paziente.
5°: Trattamento similare per alcuni esemplari di virtual men con il pollice in continuo movimento e il capo chino sopra il rettangolo luminoso; perennemente connessi ma completamente scollegati dalla realtà. Dopo un periodo di disintossicazione, saranno sottoposti a un graduale reinserimento nel mondo reale fino al completo recupero dei sensi: caldo, freddo, paura, ansia, ma anche gioia: Dopo qualche giorno di rieducazione i soggetti riusciranno persino a godersi un tramonto, e una folata di vento sul viso parrà un’esperienza indimenticabile.
Innocenzo depose la biro e rilesse quello che aveva appena scritto: “Solo 5 punti e quasi impossibili da realizzare, pura follia”, pensò scoraggiato.
Non c’era più Costanza a risollevargli il morale e ora neppure la sua fervida immaginazione era sufficiente a scrollargli di dosso quell’inquietudine… Mah, meglio lasci…
Drinnn!
Alzò distrattamente la cornetta del telefono: “Pronto?”
“Salve sono Gaglioffo, di nome non di fatto.” Breve risata dell’individuo. “Mi scusi, le posso chiedere che acqua beve, quella del rubinetto o si serve al supermercato… mi perdoni, quale marca? Scusi l’invadenza ma ci sarebbe un nostro agente che proprio nei prossimi…”
“Certo la cosa mi interessa eccome!” Lo interruppe Innocenzo con ritrovata energia. “Mi dica pure quando, lo aspetterò a braccia aperte”.
Una strana luce filtrò dalla sottile fessura tra le palpebre.


giovedì 8 settembre 2016

un piccolo racconto riesumato




Sette



Il numero sette era il suo  numero preferito. Non per un particolare motivo, l'aveva scelto così, inconsciamente, tanti anni fa. Non c'entravano i sette peccati capitali, le sette note musicali o i colori dell'arcobaleno, no, niente di tutto questo. Una sola cosa, fra le tante che aveva scoperto attorno al suo numero portafortuna  o intrigava:  il sette veniva  considerato attraverso uno strano calcolo, un numero "felice". . A parte questo, ripeto, non esisteva niente di misterioso, di esoterico dietro a quella scelta...  Quello che più lo affascinava di quel numero era l'asciuttezza e la semplicità del segno grafico.  Il 6, il 9, l'8  sono numeri svelti  e un po' ruffiani con le loro curve ammiccanti  mentre il 7  no, niente salamelecchi, rigido, spigoloso non cerca di farsi amare a tutti i costi,  perciò chi lo sceglie lo fa accettandolo così com'è punto e basta. 

Anche gli uomini, Giuliano li giudicava con il medesimo metro e fu probabilmente per questo motivo che diventai il suo amico più fidato. Adorava le persone  lievemente antipatiche, più per timidezza che per arroganza, "un po' riservate che parlano poco ma che quando lo fanno devi prendere nota sul taccuino"  mi diceva  "l'essere taciturno rende l'uomo maggiormente affidabile" continuava. Quando raramente gli capitava di incontrarne qualcuno diceva sempre: "ecco un bel sette, mi piace".

Spesso mi raccontava quanto quel numero fosse stato presente in molti momenti della sua vita: a sette anni, la prima bici, durante le partite a pallone aveva sempre ricoperto il ruolo della mezzala con il numero 7 sulla maglietta, alle superiori aveva deciso che la media del sette fosse un risultato più che dignitoso - anche se alcuni insegnanti lo consideravano poco ambizioso -, 7 era il numero dell'autobus che lo portava a scuola, sette le donne della sua vita, l'ultima si chiamava Iris, e così via. Aveva addirittura cambiato il suo nome di battesimo, di otto lettere, da Giuliano  a Giulian" un po' meno provinciale, non trovi? " si giustificava. Anche se non lo ammetteva, quel numero era diventato per lui una vera ossessione e si sa, come  spesso le fissazioni scaramantiche possano condizionare lo svolgere della vita.

Ora  in quel preciso momento si trovava chiuso in un ascensore diretto al settimo piano di un vecchio  edificio totalmente occupato da uffici, civicamente situato al numero 7 di via Tarquinio Prisco (uno dei sette re di Roma). Nonostante fosse domenica, eri lì per lavoro.  A volte gli capitava di riflettere  su quella sua professione così insolita che svolgeva con grande dedizione da poco più di un anno ma con indubbia  predisposizione, visti i risultati piuttosto incoraggianti ottenuti. Certo la meticolosità, la precisione e la freddezza tipica del suo carattere lo avevano sicuramente aiutato.
Giulian era un Killer, un ottimo Killer.
  
Si era recato  in quel vecchio palazzo, nonostante fosse un giorno festivo per portare a termine – parola più che appropriata – questo nuovo e decisivo “incarico”. “Il prossimo sarà l’ultimo e poi basta" mi aveva confidato " ho già messo via un bel po' di quattrini e ho anche prenotato un volo per le Mauritius… Mi aspettano....”.
 "Un posto?!... e Iris?” gli avevo chiesto
“Iris mi ha stancato, sta diventando asfissiante, naturalmente non sospetta nulla, e per questo che la valigia con i contanti è meglio se la tieni tu… e poi non vorrei abusare della fortuna, l' ultima volta c'è mancato tanto così ".
In effetti, aveva accettato quest'ultimo affare con non poca  riluttanza - la precedente"commissione" aveva presentato notevoli difficoltà - ma i soldi in ballo questa volta erano davvero molti e poi lo tranquillizzavano tutti quei 7:  numero civico, settimo piano, settimo incarico, settimo giorno della settimana... quel numero gli aveva sempre portato fortuna e, ne era fortemente convinto, lo avrebbe fatto anche questa volta. Aveva ripassato il piano nei minimi dettagli: il "soggetto" ogni giorno, immancabilmente, compreso la domenica si fermava nel suo studio per pianificare personalmente il lavoro per la giornata successiva e lo stabile a quell'ora era completamente deserto. Tutto nella sua mente era stato calcolato nel minimo dettaglio, come al solito. Certo se non ci fosse stato quell'imprevisto dell'ascensore sarebbe stato perfetto perché niente gli procurava ansia come il salire su un ascensore.  Si sentiva in trappola dentro quella scatola e lo innervosiva essere in balia di quel mezzo meccanico, lungo o corto fosse il tragitto. Solitamente preferiva salire le scale a piedi " per tenermi in forma "  - diceva, ma in realtà non sopportava di restare chiuso  in quel parallelepipedo scricchiolante, gli mancava l'aria ma  soprattutto temeva di precipitare, che i cavi all'improvviso potessero cedere.
Immaginava la discesa verso l'inferno e sentiva tutta l'impotenza dell'uomo. "almeno avessero messo delle sbarre, quassù in alto, così da potersi attaccare nell’attesa dell'impatto".... Queste e altre assurdità vagavano nella sua mente ogni volta che ne prendeva uno. Odiava non avere il controllo totale sulle cose.
Questa volta non aveva avuto scelta: un triplo nastro bianco e rosso sbarrava l'accesso alle scale e un cartello ne indicava l'inaccessibilità a causa di una manutenzione straordinaria.
A malincuore si era visto costretto ad usufruire di quel montacarichi dall'aspetto poco rassicurante.
Con la mano inguantata aveva schiacciato nervosamente il pulsante con su stampigliato il numero sette e l'ascesa era cominciata.
Fu in prossimità del sesto piano che quello che aveva sempre temuto accadde: l'ascensore rallentò fino a fermarsi, si sentì un sibilo assordante  simile al fischio del treno seguito da un rumore di ferraglia e un istante dopo, con un grido lancinante l'ascensore precipitò.
Ci mise 7 secondi a fracassarsi al suolo.
In quella frazione di tempo, Giulian non ebbe il tempo di formulare il ben che minimo pensiero.
Ma anche se generosamente gli fosse stato concesso qualche minuto ancora, difficilmente avrebbe realizzato che quella sua triste fine non era dovuta semplicemente ad uno scherzo del destino, ad un lancio di dadi sbagliato.


difficilmente avrebbe realizzato  che Iris si era accorta da tempo del calo di passione nei suoi confronti
difficilmente avrebbe realizzato che io, l’amico fedele ero diventato il suo amante
difficilmente avrebbe realizzato che subito dopo la sua confidenza di voler sparire con tutti i soldi io ed Iris abbiamo organizzato il nostro piano
difficilmente avrebbe realizzato che eravamo stati noi a ingaggiarlo per quell'incarico  e infine
difficilmente avrebbe realizzato che il cartello posto davanti alle scale si riferiva all'ascensore: era  bastato semplicemente spostarlo… 
Beh, ad essere sinceri, qualche bullone l’ho allentato, così per precauzione, sette per la precisione.

Iris era la tua settima donna, caro Giulian e tu l'hai tradita infrangendo così l'ultimo dei sette sigilli


Stefano Mina




martedì 10 dicembre 2013

incipit " i sonnambuli"


C'erano degli strani esseri che da anni passavano sempre dalla stessa porta nonostante attorno ce  ne fossero tante altre di ogni forma e dimensione. Forse c'era stato un tempo in cui avevano utilizzato anche gli altri ingressi ma nessuno se ne ricordava più e nessuno se ne era mai posto il problema.
Da un tempo indefinito si infilavano in quella specie di cunicolo angusto come se non ci fossero alternative e sinceramente la cosa non li turbava più di tanto; parevano seguire un ordine prestabilito, immutabile, un po’ come quello che costringe i salmoni alla risalita che li condurrà alla morte o che  spinge i lemming al suicidio di massa. E pensare che non era per nulla agevole varcare quella soglia. Con il passare del tempo questi individui si erano modificati strutturalmente ed erano diventati sempre più obesi ed impacciati mentre la porta, al contrario, diventava sempre più stretta, soprattutto  a causa della formazione nel perimetro interno di alcune escrescenze, astratte protuberanze in continuo movimento: un’inquietante cornice dall’aspetto per nulla rassicurante. Se si aggiunge poi che la splendida luce che un tempo indorava l'ingresso era del tutto scomparsa, quella assurda ostinazione era davvero inspiegabile, del tutto innaturale, anche per chi da anni aveva smesso di evolversi seguendo i dettami indicati dalla natura.
Da tempo avevano smesso di sognare, di pensare, di farsi domande; i gesti erano semplici e sempre gli stessi, monotoni ma rassicuranti come tutte le cose abitudinarie. Non erano felici ma neppure tristi, nessuna emozione turbava la loro vita piatta, scialba. Vivevano senza alcun sussulto, liberi, ma senza sapere che farsene della loro libertà perché da troppo tempo avevano smesso di scegliere autonomamente preferendo farsi guidare da altri che generosamente si erano accollati questo onere in loro vece. Così passavano gran parte del loro tempo  a consumare e ad ingoiare ogni cosa con una ipnotica e insaziabile ingordigia...

domenica 29 settembre 2013

Il dio delle lumache





Non vi preoccupate, qui di lumache e del loro destino si parlerà davvero, nulla a che vedere con l'eleganza del riccio, del giorno della locusta o dei tre giorni del condor dove il riferimento con l'animale è per lo più un pretesto per scrivere un racconto metaforico. La chiocciola è quel piccolo animaletto viscido che normalmente suscita in noi reazioni contrastanti, di repellenza se si pensa alla sua vischiosità ma anche di profonda simpatia per quella sua timidezza, quel suo ritrarre le corna, per la sua proverbiale lentezza e quel suo portarsi appresso la casa sulle spalle; chi da bambino non ha mai disegnato una lumaca? Ma ora basta con le digressioni e veniamo al dunque.

   Stavo facendo la mia solita camminata lungo il percorso naturalistico che costeggia sinuosamente il fiume Marecchia con passo spedito. Era mattina presto e l'aria fresca e umida pungeva le narici. Dopo trenta minuti buoni non avevo ancora incontrato nessuno quando a un certo punto vedo una lumaca intenta ad attraversare il sentiero. La guardo e mentre allungo il passo per non calpestarla, mi domando se non fosse stato il caso di aiutarla nel suo intento, conscio che di lì a poco, orde di biciclisti, come li chiama mio padre, sarebbero transitati, e allora per lei il rischio da correre sarebbe stato davvero grosso. Ma poi rifletto: chi sono io per decidere della sua sorte, non sono mica il Dio delle lumache e poi chi mi dice che una volta trasportata dall'altra parte, magari quella sbagliata, lei non faccia dietro- front; allora nulla sarebbe valso essermi costituito da uomo del destino e poi oramai sono lontano e non ho alcuna intenzione di ritornare indietro. Dopo qualche minuto ne incontro un'altra. Stesso comportamento. Vera coerenza. Passa il tempo ma nonostante cerchi di essere indifferente, neppure la bellezza della natura riesce completamente a distrarmi. Ogni tanto la mente ritorna a quelle due creature che ho lasciato in balia del loro destino e nonostante cerchi di giustificare la mia scelta, devo ammettere di sentirmi un po' strano. Ancora qualche passo e ne scorgo una enorme ma è solo un guscio vuoto. Meno male! Dopo circa trenta minuti raggiungo il cavalcavia dell'autostrada perciò decido di tornare indietro. E' vero, sono leggermente in ansia e dico a me stesso che se al ritorno trovo ancora le mie due amiche, le sposto nell'erba. Fanculo! . Accelero il passo perché sono quasi le nove e anche se è una domenica mattina di novembre, ho già incontrato i primi ciclisti isolati e il tempo stringe. E' davvero difficile che decine di ruote cingolate lascino un cm di spazio libero sulla strada bianca. Eccoli accidenti! Con i loro costumi attillati, i loro copricapo e le loro mountain bike ultraleggere, con quel battistrada da trattore, fanno davvero impressione. Li immagino davanti allo specchio mentre indossano fieri la loro divisa pronti alla missione. Più che sportivi mi sembrano un esercito di super eroi da fumetti. Sono certo che se mi girassi mentre sfrecciano al mio fianco, li vedrei alzarsi in volo. Devo essere sincero in branco un poco mi irritano. Forse esagero ma spesso colgo, nel loro incedere, una punta di arroganza, quasi una mancanza di rispetto nei confronti dei poveri camminatori che non possono fare altro che scansarsi velocemente al loro sopraggiungere, e dell'ambiente che li circonda. Chi cammina in quella strada ghiaiosa sente solamente il rumore dei propri passi così come chi pedala in solitaria, il lieve scricchiolio della ghiaia sotto ruote. La natura con i suoi suoni non ne viene disturbata più di tanto.
Mi scanso leggermente di lato, uno di loro, probabilmente il capo muta, grida un “bravo” perché con il mio movimento, a suo giudizio corretto, non l'ho costretto a frenare. Bravo un cazzo, stronzo! Penso. Non è certo il caso di mettersi a litigare con trenta Nembo Kid. E poi ho fretta e sono preoccupato per le mie due chiocciole. Riprendo il cammino che ora è quasi corsa. Trovo il guscio vuoto. Intatto. Allora c'è qualche speranza. Non riesco però a essere davvero ottimista. Infatti, di lì a poco scorgo tra i solchi inequivocabili un grumo composto da guscio sassi e materiale organico. Non ce l'ha fatta cristo! Un lieve senso di colpa affiora dentro di me. Egoisticamente penso “sono quasi cieco come una talpa eppure l'ho vista, accidenti” Già, occhio non vede cuore non duole. Invece gli toccherà dolere. Vado avanti con la tenue speranza che almeno l'altra si sia salvata e allungo il passo temendo il peggio. Mentre cammino, attivo il radar e perlustro ogni centimetro di terreno che mi sfila sotto i piedi come un tapis roulant. Dopo dieci minuti, realizzo che oramai devo aver superato il punto dove ho incontrato la prima lumaca e tiro un sospiro di sollievo. Almeno una si è salvata. Rallento un po' e cerco di distrarmi guardando il paesaggio ma non riesco a non pensare al mio atteggiamento di poco prima quando ho cercato di mascherare la mia indifferenza con un bislacco e supponente ragionamento intellettuale mentre sarebbe stato così semplice interrompere per un attimo il mio cammino, prenderle delicatamente fra le dita e riporle dolcemente sull'altro lato della strada mettendole così al sicuro. Piuttosto che prendere una facile decisione, ho preferito perdermi in inutili elucubrazioni, caratteristica del tutto umana, così come quella di cercare a tutti i costi di trovare complessi e reconditi significati anche quando questi non ci sono. Potevo fermarmi ma non l'ho fatto, punto. E' sempre una questione di scelte: per non perdere tempo, ho preferito fosse il caso a decidere al posto mio e l'ho fatto sapendo che stavo puntando loro una pistola pronta per un giro di roulette russa a cui i due ignari molluschi non sapevano di partecipare.

   Ogni azione determina un effetto e non è certo che quelle buone portino con certezza buoni risultati ma se tornassi indietro, non avrei dubbi e senza scomodare alcuna divinità so che la mia decisione sarebbe molto diversa da quella che presi quel giorno perché anche se sono consapevole che le nostre scelte non sempre hanno il potere di modificare sensibilmente il corso delle cose questo non significa che possiamo sottrarci dalle nostre responsabilità semplicemente girando la testa di lato.



lunedì 3 ottobre 2011

senza titolo

Proviamoci di nuovo. Con la favola ha funzionato e anche se ci ho messo una vita sono riuscito a finire il racconto, perciò ho deciso di tirar fuori questo piccolo racconto incompiuto con protagonista il commissario Magrettì, un personaggio da me utilizzato per un vecchio concorso letterario"LO STRANO CASO DI RUE DES OISEAUX".
Ne pubblicherò una parte con la speranza di portarlo a termine.


Nella penombra del suo ufficio, Il commissario Magretti se ne stava seduto alla scrivania con la testa tra le mani. Gli occhi chiusi. Immobile, pareva dormisse. Invece era ben sveglio, troppo sveglio purtroppo. Avrebbe di gran lungo preferito che tutto quel vorticare di pensieri, quella parata di immagini che scorrevano davanti ai suoi occhi fossero solo sogni e non l'orrida rappresentazione del quotidiano, del suo quotidiano. Ripensava all’ultimo caso che non si poteva ancora considerare chiuso anche se di lì a poco, ne era certo, dalla porta sarebbe arrivata la conferma che i suoi sospetti non erano infondati anche se questa volta, senza alcuna prova, si era mosso seguendo unicamente il suo intuito. Era accaduto tutto in una frazione di secondo ma la differenza tra un buon investigatore e uno normale stava proprio nella capacità di cogliere anche il minimo segno, quello che pochi riescono a percepire. Era davvero stanco. Non aveva chiuso occhio per tutta la notte. Difficile riuscire a dormire sulla vecchia e scomoda poltrona dell’ufficio. Si era tolto le scarpe ed aveva allungato le gambe su una sedia ma la tensione non gli dava tregua e non riusciva a distendere i nervi e ad azzerare i pensieri. Nonostante l’esperienza e gli sforzi nel cercare di non farsi coinvolgere troppo dal lavoro, non ci riusciva mai del tutto. Aveva creduto che con il passare del tempo si sarebbe abituato a certe situazione ma purtroppo o per fortuna così non era stato. Purtroppo, perché il fardello che a volte si portava appresso era davvero troppo pesante. Per fortuna, perché questo significava che ancora possedeva quella sensibilità, quella compassione necessaria per svolgere al meglio il suo gravoso compito di investigatore. Compito alquanto delicato visto che spesso era costretto ad insinuarsi nelle pieghe dell’umanità e sapeva bene che per trattare con materiale umano occorrevano sia rispetto che tatto. Cercava innanzitutto di capire prima ancora di emettere giudizi immedesimandosi nella vittima ma soprattutto cercando di intuire le ragioni di chi aveva commesso il reato anche se a volte il “movente”era inesistente. “Non sempre le cose sono quelle che appaiono, dipende sempre da che parte della pistola stai guardando” era solito dire sorridendo, anche se lui la pistola preferiva lasciarla nel cassetto.
Ogni volta che arrivava alla conclusione di un caso veniva colto da sensazioni contrastanti; la parte razionale era appagata da quello che la sua capacità investigativa era riuscita a portare a compimento ma la parte legata alla sfera emotiva gli dava sempre più un senso di spossatezza unito ad una profonda amarezza. Rendersi conto di quello che l'uomo era in grado di fare nei confronti dei suoi simili era davvero sconfortante e non riusciva mai ad accettarlo fino in fondo. Quante bugie era costretto ad ascoltare ogni volta e spesso gli toccava pure far finta di credere a tutte quelle menzogne, quasi volesse in qualche modo giustificare lo sforzo creativo di chi gliele propinava. Pareva che tutti avessero avuto una buona ragione una giustificazione più che plausibile per commettere qualsiasi crimine, anche il più terribile.
Come se non si rendessero conto del limite che avevano superato, quel limite che ogni società si deve dare per far sì che ognuno possa vivere accanto all'altro. Certo ci sarebbe da discutere a questo proposito dato che mai come ora il paese era diviso tra chi veniva punito per qualsiasi reato, anche quelli ridicoli e chi difficilmente metteva piede in un tribunale grazie alle mille interpretazioni della legge e denaro a sufficienza per permettersi la scaltrezza di subdoli avvocati
Basta con queste elucubrazioni tuonò il commissario qua ci vuole una buona pipata
Tirò fuori dal cassetto la scatola con il tabacco e la pipa dalla tasca della giacca.....
Prima di accendere si alzò e andò al giradischi, non l'aveva mai tradito con i più pratici ma freddi lettori cd. Delicatamente sfilò dalla bella custodia di cartone un disco nero come liquirizia e lo depose sul piatto. Alzò il braccio dell'apparecchio, gli fece fare un leggero movimento all'indietro e quando sentì lo scatto lo posizionò proprio sopra il cerchio nero come la pece con estrema attenzione. Si sentì un leggero sfrigolio poi fu soltanto musica quella che riempi la stanza
Ritornò alla scrivania si sedette e allungò le gambe davanti a se prese la pipa e finalmente l'accese.
Il fumo cominciò a salire mescolandosi al suono caldo della tromba di Miles, al sax di Coltrane Ad ogni boccata i nervi di Magretti si rilassavano dopo alcuni minuti la sua mente ritrovò quella pace che da molto tempo aveva come smarrito..
- commissario!
La porta si aprì all'improvviso facendo entrare l'aria fredda dell'inverno ......
"Non c'è niente da fare" pensò M. senza però scomporsi più di tanto "il caro Chevalier, non imparerà dunque mai a bussare"...
" che c'è Maurice?" oramai aveva rinunciato pure a rimbrottarlo
" scusi commissario, ma che puzza c'è qua dentro" e corse alla finestra e la spalancò
" faccia piano e ascolti"
"ma...”
"shhh!”
Al brigadiere non restò che arrendersi. Andò a sedersi sulla sedia di legno posta all’angolo della stanza e in religioso silenzio aspettò per tutta la durata del brano che intanto si era impossessato di ogni cm cubo dell’ufficio inondandolo di note.



“Allora mi dica André” disse il commissario mentre ripuliva il fornello della pipa “anzi no aspetti” accompagnò le parole con un eloquente gesto della mano e dopo un breve istante di silenzio appoggiandosi nuovamente allo schienale della vecchia poltrona, sospirò rumorosamente, come se avesse un gran bisogno d’aria. In realtà significava che era pronto per la sua solita lucida analisi, una sequela di parole che avrebbe lentamente fatto luce su ogni cosa anche la più recondita; Non che fosse interessato a mostrare le proprie capacità deduttive, non possedeva certo l’ego di alcuni suoi colleghi più celebri, ma aveva bisogno di riepilogare a voce alta i fatti per poter sciogliere ogni nodo dal filo dei pensieri, per non trascurare alcun dettaglio. Il brigadiere che prontamente si era alzato per fare il dovuto rapporto al suo superiore si risedette senza protestare. Non era la prima volta che ascoltava il lucido argomentare del suo capo, come un rito obbligatorio a cui, sinceramente, non avrebbe mai voluto rinunciare, tanta era l’ammirazione per il commissario.

“ Allora ricapitoliamo: giovedì scorso è crollata un abitazione piuttosto vecchia, in rue Bruyere, forse una fuga di gas. In quella casa vivevano i due Fratelli Beaucoeur. Uno dei due, quello più anziano, ci ha avvisati immediatamente dell’accaduto e con le lacrime agli occhi ci ha comunicato che probabilmente sotto le macerie era rimasto sepolto il fratello. Lui si era salvato essendo uscito, soltanto un’ora prima, per scaricare la tensione accumulata durante una discussione avuto con il famigliare e questo lo angosciava terribilmente, anche se doveva la vita proprio a quel litigio. Abbiamo avuto conferma di questo dai vicini che hanno sentito le urla attorno alle venti, venti e trenta. Senza perdere tempo si è proceduto con gli scavi nella speranza di trovare vivo il malcapitato e proprio ieri sotto un cumulo di mattoni e travi di legno, miracolosamente l’abbiamo trovato che ancora respirava. L’uomo era ridotto ad un burattino inanimato. Picasso non avrebbe saputo fare meglio. Era ancora inspiegabilmente vivo, come se una forza sopranaturale lo avesse aiutato a resistere per rivedere la luce del sole, un sole che però si è eclissato un istante dopo, dandogli appena il tempo di pronunciare un nome e sgranare gli occhi che illuminarono, così, per un breve attimo il suo volto trasfigurato dal dolore…”
Il commissario fece una pausa perché ricordava bene che fu proprio in quel momento che ebbe quella strana sensazione, come una rivelazione.
Quella che per tutti era stato l’ultimo pensiero per l’amato fratello, per Magretti era l’indice accusatorio della vittima puntato verso il suo assassino. Solo per quel motivo aveva resistito per tre giorni senza cibo e acqua e con il corpo completamente devastato, Magretti ne era più che certo.





mercoledì 25 maggio 2011

questo è il racconto con cui ho partecipato



DISEREDATI

Manuel schivò il barbone all’angolo di via Marconi e svoltò per via Indipendenza. Non guardò i fighetti davanti al bar e le ragazze in minigonna con gli stivali a mezzacoscia, non guardò nulla e s’infilò nel portone del numero tre. Quell’idiota di Francesco lasciava sempre aperto, doveva dirglielo di usare più cautela.

Sebbene nella sua mente volteggiassero ben altri pensieri, pignolo com'era, questa tipica disattenzione di F. gli procurò un lieve fastidio. "eppure dovrebbe aver capito come si chiude questo cazzo di porta" se non la si accompagnava fino in fondo e non si faceva una lieve pressione quella rimbalzava e si riapriva. Ma F. era così e a certe cose proprio non faceva caso. La sua mente era in continuo movimento ed elaborava progetti con una facilità ed una determinazione davvero sorprendenti; non poteva certo sprecare il suo prezioso tempo preoccupandosi di vecchi e difettosi portoni. Manuel liberò un sorriso. Lo immaginò mentre sbatteva dietro di se il vecchio portale e con grandi falcate si divorava la rampa di scala prima che questi sbattesse contro lo stipite, oramai aureolato da innumerevoli piccole crepe impresse nel muro
"Già, poi chi lo sente il proprietario" disse M. a voce alta
"Ogni volta che viene per l'affitto scansiona tutto l'edificio per scovare qualche magagna, sembra uno della "scientifica”
Mentre questi pensieri sonori fuoriuscivano in libertà giunse davanti all’ingresso del loro piccolo bilocale e dopo aver raddrizzato con un piede lo zerbino entrò. Gettò rumorosamente le chiavi nel cestello per attirare l'attenzione di F. ma lui non sentì. Era in piedi davanti ai fornelli, con le cuffie alle orecchie, intento a preparare uno dei suoi soliti piatti esotici. M. non poté fare a meno di notare la sua invidiabile prestanza fisica dato che, sia che fosse estate o inverno, in casa se ne stava torso nudo. "Altro che regia, l'attore dovresti fare, con quel fisico" lo sfotteva sapendo di farlo irritare. F. detestava persino farsi fotografare. Gli si avvicinò e con aria di finta riprovazione alzò la voce "allora idiota, l'hai lasciata aperta anche stavolta" il tono era così alto che questa volta F. nonostante il volume della musica non poté non sentire; fece scivolare con la mano libera la cuffia senza fili che continuò a gracidare all'altezza del collo e girando la testa rispose sorridendo "ah, sei tu pendejo, cos’hai da sbraitare come un cervo in amore?" Insultarsi amorevolmente era per loro un vero divertimento. "se ci fregano un’altra bici poi come ci muoviamo in questa cavolo di città?” rispose M. Queste parole lo riportarono bruscamente alla realtà e l’accenno di sorriso che aveva fino ad un istante prima scomparve del tutto. F. intuendo il perché di quel cambiamento umorale domandò a sua volta “allora com’è andato l'incontro?” M. si limitò a scrollare le spalle e si girò verso la finestra “ma cosa ti aspettavi” continuò F. “pensavi davvero che le cose potessero andare diversamente? Non credo, visto che hai accettato quel lavoro in quella scuola ad Istanbul ”
“Sì, sì, hai ragione Francesco ma è che questa volta avevo sperato in qualcosa di più delle solite parole vuote di circostanza" e con voce nasale imitando la voce del responsabile delle attività culturali “lei è un bravissimo musicista, la teniamo d'occhio, è il primo della lista, abbiamo per lei dei progetti ma deve avere pazienza, sa i tagli alla cultura, la crisi…” “ma vaffan…” Sul fuoco intanto il sugo sfrigolava. F. si girò e aggiunse un goccio d’acqua tiepida all’intingolo “pazienza” riprese M. “ma se è un anno che ci siamo trasferiti nella capitale dietro false lusinghe e consigli di quella specie di agente che finge di darsi da fare…se cercate delle opportunità dovete venire a Roma, è qua che si muove e nasce tutto…ma vaf… anche all'agente” F. intanto mise un panno sopra la pentola del riso. “Ma sì, meglio così siamo giovani no, ne abbiamo di tempo” continuò M. quasi dovesse convincersene “avrei dovuto darti retta e prenotare quei voli un mese fa quando il prezzo era conveniente, acc…”
“vieni qua un attimo” lo interruppe F. porgendogli il cucchiaio di legno “attento che non si attacchi” e sparì in camera.
Ritornò un istante dopo con il computer “guarda coglione”
Sul portatile erano visibili due prenotazioni aeree per la città sul bosforo…di sola andata…partenza fra due giorni
F. come al solito aveva giocato d’anticipo.
M. spalancò la bocca ma non ne uscì alcun suono.
Cosa avrebbe potuto dire d’altra parte? Ci avevano provato. Erano arrivati dalla provincia certo con qualche aspettativa ma illusioni no, quelle no.
Da tempo avevano capito che il loro paese li aveva abbandonati come cani in autostrada, così come avevano capito che non rientravano nei progetti di una classe dirigente gretta, ignorante e violenta che faceva finta che loro non esistessero, derubandoli così del futuro. E già! la madre patria si era rivelata una genitrice alquanto snaturata. Certo il tempo giocava a loro favore ma fino a quando? Intanto la vita scorreva via veloce, troppo veloce per rischiare di sprecarne anche una sola goccia, amara o dolce che fosse.
Da tempo avevano rimosso gli steccati mentali che portano gli uomini a circoscrivere un luogo rispetto ad un altro; ora si trattava solo di mettere in pratica quello che avevano sempre desiderato: muoversi nel mondo
Qualcuno sicuramente avrebbe definito la loro semplicemente una fuga ma si è mai chiesto quel qualcuno di quanto coraggio serva per fuggire?
“Tutto bene Manuel?” chiese improvvisamente F.
Il tono asciutto sincero della sua voce riportò M. alla realtà e il tempo che per alcuni istanti pareva come sospeso riprese il suo corso
“ in fondo era quello che volevi, no? Continuò appoggiando il computer sul tavolo “essere utile a qualcuno. Beh! Ad Istanbul ci sono decine di giovani studenti che ti aspettano ed io mi arrangerò, il materiale da filmare non credo mancherà”
I due, ora si trovavano uno di fronte all’altro. Si guardavano in silenzio e sorridevano. Una strana euforia li stava pervadendo.
Manuel guardava negli occhi del suo giovane fratello e ne condivideva la lucentezza. Vi si rispecchiava. Erano occhi grandi, profondi, belli come lo sono gli occhi di chi ancora sa sognare, di chi ancora non ha smesso di farlo

“E spegni quel fornello cabròn, non vedi che è pronto?!”








giovedì 5 maggio 2011

più incipit per tutti

sto partecipando, in forma anonima per il momento, ad un gioco letterario indetto dall'amica Morena Fanti... se vi va date un'occhiata

lunedì 21 marzo 2011

c'era una volta una favola senza finale e ancora c'è

c'era una volta una favola senza finale che ancora il finale non ha.
Ma visto che chi ha iniziato a scriverla non si da pace, anche perché tanto ma tanto tempo fa l'aveva promessa a delle care amiche ( Morena, Cristina) abbiamo deciso (lui ed io) di pubblicarla ugualmente, convinti che qualcosa sicuramente accadrà.... speriamo, altrimenti saremo costretti ad inserire questo piccolo testo nella "stanza dei racconti incompiuti"

p.s. il testo potrà subire modifiche durante la stesura (ogni parte aggiunta avrà un colore diverso)


favola

"guarda che se non mangi tutta la minestra viene l'uomo nero"
"dormi subito perché altrimenti arriva il bubu"
"se non fai il bravo l'orco gigante ti porta nella sua grotta"
"non ti allontanare troppo altrimenti il lupo cattivo..."
"guarda che se il poliziotto vede che non mi dai la manina, ti chiude in galera"
e quella volta in treno: " guarda arriva il controllore, stai seduto composto altrimenti ti buca l'orecchio con la pinza..!"
Queste ed altre assurde frasi ritornavano alla mente di S.
I suoi genitori le usavano oramai come una specie di intercalare, le infilavano così, senza nemmeno accorgersene, anche quando non ce n'era alcun bisogno, sempre ammesso che queste parole assurde servissero davvero a qualcosa oltre a rendere S. sempre più insicuro e timoroso.
Non lo facevano per cattiveria ma semplicemente perché erano convinti che fosse un modo efficace e sbrigativo per farsi ubbidire; sicuramente il meno faticoso dato che non li costringeva a prendersi l'impegno di star lì a spiegare e a motivare ogni loro richiesta.
S. ne era oramai terrorizzato.
Era giunto al punto di temere di sbagliare ogni cosa si accingesse a fare perciò oramai si limitava solamente ad eseguire quello che gli veniva ordinato come un piccolo e obbediente robot alquanto spaventato.

Passava le giornate quasi sempre chiuso in casa e non aveva neppure più il coraggio di uscire nel cortile davanti alla sua abitazione. Vedeva oramai mostri dappertutto, dietro ogni angolo, ogni albero. Era sufficiente un colpo di vento ad alzare le foglie e subito pensava alla presenza di spiriti, naturalmente cattivi. Non parliamo poi di quando era ora di andare a letto. Ogni sera era davvero un dramma ritrovarsi nella sua piccola camera solo e al buio. Era riuscito dopo pianti e lamenti continui ad ottenere il permesso di addormentarsi con la luce del comodino accesa così da poter controllare l'intera stanza e poi, nel caso dovesse prontamente dare l'allarme, teneva sotto il cuscino un piccolo campanello. Solo la testa sbucava fuori dalle lenzuola, anche in piena estate non aveva il coraggio di tenere i piedini fuori. Gli pareva di essere più vulnerabile, indifeso con le estremità scoperte.
Fece così anche quella notte ma visto che si sentiva particolarmente coraggioso decise di provare a spegnere la luce. Prima però controllò che ogni cosa fosse al suo posto e poi si mise sotto le lenzuola coprendosi tutto, anche la testa (coraggioso va bene ma incosciente del tutto proprio no!). Dopo alcuni minuti, però, sentendosi soffocare la tirò fuori con molta circospezione, piano piano; pareva la testa della tartaruga che se ne esce dal carapace, dal guscio dopo un piccolo spavento… ci mette sempre un po' a tirar fuori la testa, sapete.
Anche i genitori erano andati a letto.
La casa era immersa nel silenzio.
Il buio non era mai stato così denso e nero, nero come il catrame, nero come il nero di seppia, nero come la liquirizia, nero come... insomma non si vedeva praticamente un tubo, niente di niente.
Qualcuno doveva aver incappucciato la luna, che fino a poco prima sbirciava dalla finestra.
Anche quella notte come tutte le notti si sentivano quei rumori che di giorno non si riuscivano a percepire perché venivano sovrastati, coperti da altri più prepotenti, come quelli delle auto, dei clacson delle auto delle frenate delle auto, delle urla di chi guida le auto, dei tamponamenti dell… insomma avete capito, no?
"questi sono rumori notturni, di giorno si riposano" pensò poeticamente S.
Un tempo era spaventato da tutti quei suoni ma ora gli tenevano compagnia fino a quando non prendeva sonno.
Provò ad ascoltarli uno ad uno: Il ticchettio dei tarli mentre banchettano, l'acqua che scorre nelle tubature, gorgogliando (glo, sglu sdruop, teuteu …),i topolini e gli uccelli che zampettano sulle tegole, il tic tac della sveglia nel corridoio, la sedia che qualcuno sposta nella camera
"...!!!???"

"LA SEDIA CHE QUALCUNO SPOSTA NELLA CAMERA!!"


Fece un urlo muto nel senso che non emise alcun suono. A volte capita, sapete, se si vuol urlare troppo forte, il grido ti rimane in gola.
Afferrò l’orlo del lenzuolo e si coprì il volto e se ne stette lì, immobile ad ascoltare il silenzio, irrigidito dalla paura.
Sentiva solamente il battito del suo cuore che gli rimbombava nel petto, tum tum tum.
Forse si era sbagliato - pensò - forse era stata solamente la sua immaginazione, forse...
"scuscia, S. puoi fenire fuori da lì sciotto?"
Altro che immaginazione, quella voce per quanto buffa era più vera che mai!
S. non si mosse e smise anche di respirare
"siu dai, non affere paiura" disse con molta tenerezza la voce
S. ingoiò l’ultima goccia di saliva che gli era rimasta in bocca e si fece coraggio; lentamente abbassò il lenzuolo e balbettando chiese:
“ chi, chi sei? Cosa fai nella mia camera?”
“avanti diglielo” disse una voce più energica che proveniva alla sua destra , vicino alla finestra che stranamente continuava a non fare entrare nessuna luce, neppure quella dei lampioni.
“sciono il Bubu" rispose frettolosamente la voce di prima, quella che pareva provenire dall'angolo dove c'era la scrivania
“ ma quanti, ‘uanti siete? Riuscì a dire S.?
“ siamo in quattro, aspetta che accendo la luce” queste parole gli giunsero da sotto il letto
“no, non accende…”
troppo tardi, si sentì il click dell’interruttore e nella camera fu improvvisamente giorno.
S. chiuse istintivamente gli occhi e li tenne così serrati, che gli fecero male.
“ Dai, apri gli occhi S. non siamo mica cattivi” fece una quarta voce, molto bassa proveniente dall’angolo opposto della camera
La voce era calma e rassicurante, molto più della precedente e nonostante la paura che lo attanagliava -ne aveva tanta, dappertutto- si fece coraggio e dopo aver fatto un bel respiro di colpo guardò e vide. Cioè, non vide proprio subito, sapete gli occhi ci mettono sempre un po’ di tempo ad abituarsi ai nuovi cambiamenti, che si passi dalla luce al buio che dal buio alla luce; infatti, solo dopo alcuni secondi riuscì finalmente a dare un volto a quelle voci.

Nell’angolo della stanza, vicino alla scrivania la sedia era stata spostata e sopra vi era seduto un essere enorme, tondo e così peloso da averla completamente fatta sparire sotto di lui. Era davvero buffo e di un colore mai visto - almeno S. non lo conosceva- , grigio ma anche viola e forse anche un po’ color cacca di piccione. Gli occhioni si intravedevano a malapena ma parevano buoni e sorridenti.

“Ciao, sciono il Bubu - disse gentilmente l'essere sconosciuto- scienza accento sulle u, però”

“ciao” disse timidamente S.

“ e io sono l’uomo nero”

Ecco perché nessun chiarore penetrava nella stanza, l’uomo nero con il suo corpo più nero del nero della caverna, più nero del fondo di un pozzo, più nero di una notte senza stelle, più ne…insomma avete capito, no? copriva interamente il rettangolo della finestra

S. fece solo un cenno con la testa in segno di risposta

L’essere dalla voce bassa e tranquilla era gigantesco, alto fino almeno fino al soffitto.

“Ciao S. io sarei quello che tutti chiamano Orco”

A S. parve un enorme e saggio gnomo dalla folta barba rossa.

Non ne aveva mai visto uno vero con i suoi occhi, ma con quelli dell’immaginazione sì: era sicuro che quello davanti a lui con quel grandissimo cappello a forma di cono con la punta afflosciata in mano fosse proprio un enorme gnomo

“Ciao Orco” rispose S. questa volta con maggior disinvoltura

Mancava il quarto, quello che si era nascosto sotto il letto.

Ci fu un attimo di imbarazzo e di silenzio. S. nonostante fosse oramai rassicurato dall’atteggiamento bonario dei suoi nuovi conoscenti non si sentiva ancora del tutto sicuro e quella presenza sotto di lui lo inquietava non poco..

“ insomma vuoi venir fuori da li sotto?” disse l’uomo nero con voce decisa

“non vedi che il bambino sta sulle spine, è preoccupato”

“vengo , vengo” disse una voce che più cavernosa di così non si era mai sentita prima

“ volevo solo aspettare che mi presentaste, sapete l’effetto che faccio la prima volta che mi si vede; d’altra parte con tutte le balle, mmm...- scusate- bugie che raccontano in giro sul mio conto c’è poco da fare : Certo sono un lupo ma non credo di essere più cattivo di qualsiasi altra specie animale a due o quattro zampe… dipende dal carattere ed io se ho mangiato a dovere sono il più affabile dei buontemponi”.....


...“allora esco, d’accordo, S. mi raccomando non spaventarti e non lasciarti ingannare dalle apparenze” il letto si mosse di almeno un metro e la prima cosa che sbuco fuori da sotto fu una zampa pelosa con delle unghie piuttosto lunghe ...

“ aspetta” quasi gridò S. “ha.. hai già mangiato?”

“ ah! ah! ah!” rise l’essere “ certo ho appena fatto uno spuntino poco prima a base di succo di mirtillo e crocchette di patate e spinaci… ora sono vegetariano, sai, da quando l’uomo ha incasinato, ops scusami per mille pecore, ha rovesciato l’equilibrio naturale di gran parte della terra ho cambiato abitudini alimentari e ti dirò non mi dispiace per niente anche se mi mancano gli appostamenti per cercare di catturare qualche preda e le corse dietro ad una lepre o a qualche furbo topo. Ora ogni tanto faccio qualche sgambata assieme a Checco lo stambecco e a Manolo il capriolo, anche se ultimamente corro soprattutto con Gedeone il muflone, così per mantenermi in forma e non perdere il vizio… ok, eccomi

fu un attimo e davanti agli occhi spalancati di S. si presentò un bellissimo esemplare di lupo dell’appennino che nonostante le premesse, inquietava un poco ma fu solo per un breve istante perché il canide (è il nome della sua famiglia) con una mimica davvero improbabile improvvisò un mezzo sorriso così strambo che fece ridere sguaiatamente praticamente tutti, S. compreso, sapete il riso è contagioso.

“shhhhh!” fece l’uomo nero, volete svegliare tutta la casa? Facciamo piano…Certo sarebbe divertente; vi immaginate la faccia dei genitori se ci vedessero tutti e quattro qua dopo averci utilizzati per anni da spaventapasseri senza chiedere il permesso a nessuno. Glielo farei vedere io l’uomo nero…quasi quasi vado di là e…”

“fermati” disse l’orco “ non siamo qui per questo e poi non capirebbero, con loro non c’è più niente da fare, oramai”

“ ha ragione Cicino” disse il lupo, succede raramente ma questa volta, una cosa giusta l’ha detta”

l’orco si girò di scatto, non sopportava che lo chiamassero con quel nome assurdo – vista la sua stazza- ma si limitò a maltrattare il cappello tra le enormi mani e dopo un breve respiro continuò rivolgendosi ora al bambino