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martedì 7 maggio 2013

bernard

"bonjour chef"
mi giro e incontro il bel volto sorridente di Bernard
"ciao Bernard"rispondo io "è da molto che non ci si vede" e gli stringo la mano
Lui  ricambia e come se non si capacitasse della cosa mi dice quasi ridendo
" sei incredibile sai, ti ho detto come mi chiamo una sola volta  alcuni anni fa  e tu mi riconosci subito e ricordi sempre il mio nome"
e continua scuotendo la testa
"non sai quanto piacere mi faccia questo, credimi davvero tanto"
gli do una pacca sulle spalle robuste e sorrido a mia volta
potrei dirgli che non c'è niente di strano in questo ma sarei ipocrita
"Ci credo bernard, lci credo"  mi limito a rispondere quasi commosso 
A volte basta davvero poco per avere molto in cambio


( Bernard è un ragazzo di 42 anni nativo del Camerun che ho conosciuto 3 o 4 anni fa a Castelbolognese. Allora abitava a Forlì e faceva il pendolare fino a Fusignano: due treni con sprint finale di tre km in bici… per iniziare alle 8  gli toccava alzarsi alle 5 per fare circa 35 km. Ora fortunatamente si è trasferito a Ravenna e le cose vanno molto meglio anche perché è riuscito a far venire in Italia sua moglie con i suoi due figli 

domenica 6 giugno 2010

cose che capitano


sono andato in bicicletta al mercatino dell'usato di Santarcangelo; ho gironzolato per un po' fra vecchi volumi e mobili tarlati ma visto che nel portafoglio avevo poco denaro (capita spesso) mi sono accontentato di un buon caffè.
Poi non potendomi permettere l'antico ho deciso di spendere qualche euro in qualcosa di molto più "fresco" e così mi sono fermato ad un banco di frutta e verdura catturato dalla simpatia della giovane venditrice con cappello di paglia e fiori secchi.
" non le posso dire che sono dolcissime, direi una bugia ma per togliersi una voglia vanno benissimo"
Non so a che cosa si riferisse, alle fragole, alle ciliegie, alle pesche ma questa sua sincerità mi ha accalappiato e così mi sono messo in fila anche se proprio di fila non si trattava visto che gli avventori circondavano interamente il bancone; così appena ho trovato un varco mi sono inserito anch'io nella catena. Come spesso mi accade molte anziane signore, con la faccia di bronzo che le contraddistingue mi son passate avanti " guardi ho solo queste ciliegie, le metto qua" Quando siamo rimasti solamente in due la mia antagonista mi guarda e retoricamente mi domanda " tocca a me, no?" le rispondo" prego, non si preoccupi per me, se resto per ultimo sarò certo di non essere passato avanti a nessuno, cosa che ha appena fatto in modo assolutamente disinvolto quella vecchietta che se ne va soddisfatta. Allora un po' meno spavalda lei mi dice " forse allora l'ho fatto anch'io..." le sorrido e le faccio cenno che davvero non importa.
" Il signore è un vero gentiluomo e poi, "dulcis in fundo" dice sorridendo la gentile e cordiale fruttivendola"
"Grazie"
Quando finalmente tocca a me le porgo le ciliegie e due vaschette ricolme di fragole e poi le chiedo di pesarmi tre o quattro cetrioli di cui le avevo sentito parlare sapientemente con termini alquanto lusinghieri, insomma la brava venditrice era stata convincente:
" buona scelta, questo è un cetriolo digeribile, specialità di mio marito... sa, quando ci sono le signore meglio dirlo piano, potrei avere dei problemi " mi dice sorridendo con un pizzico di malizia " immagino la fila" le rispondo a mia volta.

Sono queste le situazioni che amo di più, questi momenti apparentemente insignificanti che accarezzano l'anima, questi istanti che il nostro vivere spesso di corsa ci impedisce di cogliere e di godere, questi frammenti di varia umanità.

Buon giorno a voi

martedì 3 novembre 2009

George

Lo so, ultimamente sembro dare ragione al caro amico Francesco che mi considera una specie di “vecchio saggio della montagna”(sul vecchio non ha tutti i torti) che vede solamente il buono nelle persone affrontando la vita con una sorta di ingenuità “ ma purtroppo non è così. In realtà cerco solo di difendermi da tutta l’indifferenza, dal nichilismo oramai dilagante, dal fanatismo sempre più presente nel nostro vivere quotidiano raccontando piccole ma umane storie, edificanti e commoventi nella loro semplicità convinto che siano proprio i piccoli gesti che compiamo ogni giorno ad essere davvero importanti così come il cercare di mettere in pratica tutti i nostri buoni propositi che sappiamo così facilmente esprimere a parole.
E poi in questo momento non ho proprio voglia di parlare di corruttori, di ricattatori, di fascisti, di puttanieri, di servi senza dignità alcuna, di finti giornali e presunti giornalisti, di sanguisughe, di sfruttamento di ogni genere, di ignoranza, di fanatismo, di intolleranza, di omofobia, di condizionamenti, della crisi che non c’è più, dei disoccupati di oggi e di quelli che verranno, dei ragazzi che se ne vanno perché il loro talento non è richiesto, dell’influenza ABC…, del lodo ABC.. Sono stanco di parlare di chi non sa più indignarsi, di chi non sceglie per “stare tranquillo”, di chi esterna qualunque “stronzata” convinto che tutti la pensino come lui, di chi si volta dall'altra parte, di chi comincia le sue frasi con “io non sono razzista, non ho niente contro i gay, contro i negri, contro i mussulmani…” di chi con un preciso lavoro di cesello ha lentamente svuotato di significato parole come costituzione, politica, giustizia, bene comune, pubblico, solidarietà, di chi mette la testa ovunque pur di non vedere, di non sentire, di chi utilizza retoricamente parole come patria, bandiera, chiesa per giustificare ogni nefandezza compiuta in nome delle stesse, delle parole che cambiano solamente per mascherare, dell’ipocrisia… no , sinceramente mi sono rotto le palle di tutto questo, in questo momento voglio solo raccontare piccole storie come quello che ora scriverò, piccole ma non per questo di poco valore, anzi!


Alcuni giorni fa ho incontrato George un ragazzo nigeriano di 28 anni. Lui rientrava da una mattinata di lavoro - come al solito poco fruttuosa - ma non per questo aveva perso il suo abituale buonumore e la voglia di scambiare parole. Abbiamo parlato un bel po', lui dei suoi problemi, io dei miei che naturalmente sono di natura ben diversa. E' da molto che ci conosciamo ma nonostante la reciproca simpatia mai ci eravamo addentrati in chiacchiere così confidenziali. Mi ha raccontato del suo viaggio terribile verso l'Italia, quasi 6 anni fa "l'africa è lontana -sai- un altro mondo", del deserto disseminato di morti percorso il più delle volte a fari spenti per non farsi “beccare”, del passaggio in Libia " quel paese è molto particolare" (spesso utilizza questa espressione per evidenziare in modo gentile l'aspetto negativo di una situazione o di una persona) "sono dei veri fanatici, non puoi neanche guardare negli occhi una donna", della tremenda paura durante l'attraversata in mare, dei 500 euro spesi rispetto ai 10.000 che occorrono per avere tutti i permessi per un viaggio regolare… Niente di nuovo, certo, più o meno siamo tutti a conoscenza di queste cose ma vi assicuro che sentirle raccontare da chi le ha vissute sulla propria pelle mette davvero i brividi. Mentre lo ascoltavo non potevo fare a meno di pensare a quel giovane ragazzo poco più grande di mio figlio, alla sua sofferenza così spesso mascherata dietro a quel sorriso aperto con cui ti accoglie.
“che idea ti sei fatto degli Italiani?” gli ho chiesto a bruciapelo e lui con assoluta tranquillità " alcuni bravi e altri meno, questo è il mondo”... poi ha continuato “Andrea per esempio è una bravissima persona, lui mi ha pagato il biglietto aereo di a/r (850 euro!!!) che mi permetterà di ritornare nel mio paese dopo più di 5 anni” e poi, ma questa volta con nella sua voce un velo di tristezza da spezzare il più duro dei cuori “ Sai vorrei tornare nella mia terra perché lì non sarei più un emigrante, uno straniero, lì sarei a casa…”
Dopo qualche istante di silenzio, per consolarlo gli ho fatto notare che se nessuno lo avesse fatto sentire straniero, anche questa terra sarebbe stata la sua casa ma mentre tiravo fuori queste parole, chiamiamole pure ingenue, mi sono sentito pervadere da un leggero imbarazzo conscio della loro inadeguatezza, come se avessi detto una di quelle frasi “tanto per dire” che il buonsenso dovrebbe sempre impedire di formulare, ma il ragazzo africano con quel suo sorriso capace di sciogliere un ghiacciaio non ne ha approfittato e generosamente si è limitato a rispondermi: “E’ vero Stefano, hai proprio ragione” e si è fatto una risata.
La conversazione è proseguita ed ho risposto alle mille domande che quel curioso nigeriano infilava una dietro l’altra, sulla mia professione "sei stanco di fare questo lavoro o hai voglia di andare in pensione? sui miei figli “è già partito per Berlino tuo figlio, quanti anni ha il secondo?” sulla casa, sulla musica ... A proposito di musica, quando gli ho detto che ero particolarmente interessato a quella tradizionale africana senza esitare e con generoso trasporto mi ha subito promesso che al suo ritorno mi avrebbe portato un cd "anzi un dvd, così oltre ad ascoltare potrai anche vedere le nostre bellissime danze” …
Forse se ne dimenticherà ma non importa, quello che invece conta davvero è che questo giovane ragazzo dopo tanti anni potrà finalmente riabbracciare la sua terra, la sua famiglia " vedrai, faranno fatica a riconoscerti – gli ho detto- “chissà come sei cambiato da quando sei partito?!"
“e già, quando me ne sono andato ero un ragazzino, senza questa barbetta qua e poi mi sono irrobustito parecchio, nonostante i pochi soldi per il cibo, insomma ce l'ho fatta a crescere, a vivere, ad essere come sono, cazzo! Cazzo, l'ho aggiunto io (George non l'avrebbe mai detto) perché mentre mi diceva quelle parole ho sentito tutto l'orgoglio, tutta la forza di chi è stato all’inferno e ne è uscito indenne, di chi pur essendo consapevole che di difficoltà da superare ne ha ancora tante, sa di aver compiuto un' impresa titanica, quella del voler vivere… ad ogni costo
Ho sorriso ed ho abbassato gli occhi

p.s. finché ci saranno in giro persone come Andrea io mi sentirò tranquillo


stefano

domenica 6 settembre 2009

biciclette!


ieri sera ho rivisto con amici il bel film di mike leigh "happy go lucky"; all'inizio del lungometraggio alla protagonista rubano la bicicletta e lei come unica reazione, senza neanche prendersela troppo, dice:" nooo! non è possibile, non ci siamo neanche dette addio! bisogna proprio essere positivi per reagire così, non trovate?
Se ricordo bene, ogni volta che mi è successo una cosa del genere, dopo un primo istante di smarrimento, di stupore, facevo tremare le galassia con il lancio di alcune maledizioni che facevano apparire innocue persino quelle di alex drastico
Pensate che io stia esagerando? In fondo si tratta soltanto di una bici, che sarà mai?
Soltanto una bici, che sarà mai? ora ve lo spiego:

la mia famiglia composta da 4 persone ha sempre posseduto una sola automobile, l'ultima aveva compiuto 19 anni prima di essere stata rimpiazzata con una più giovane (che ci volete fare, succede, no!?) e nessun motorino, perciò capirete l'importanza che la bicicletta assume in tali circostanze,... beh, per farla breve vi faccio un elenco delle "ragazze a cui non ho potuto dire addio"; ad essere sincero alcune le abbiamo anche ritrovate ma in un tale stato che abbiamo preferito non chiedere alcunché su quello che avevano subito... sapete, solo il tempo può - a volte - se non cancellare del tutto almeno mitigare certi dolori!

La prima è stata una mountain bike di fabio, regalata dal nonno ceschi, rubata mentre dormiva, proprio nel ripostiglio sotto casa: era bellissima, semi artigianale, un pezzo unico... il dolore è stato immenso, non l'abbiamo più rivista. Poi c'è stata la "rossa", da corsa, che di cognome faceva bianchi... me l'aveva regalata alfonso. Nonostante fosse già avanti con gli anni con qualche ritocco e tanto affetto, faceva ancora la sua bella figura e chi la incontrava non perdeva l'occasione per " farle il filo"... no, no, so cosa pensate, non è stata una fuga d'amore, è stata rapita, ne sono sicuro, a casa non le mancava niente e poi dopo tutto quello che avevamo fatto per lei sarebbe stata davvero ingrata! Un giorno, in pieno centro, ad un amico è parso di riconoscerla "se non era lei le rassomigliava parecchio" mi disse. Dopo aver fermato e gentilmente aggredito il baldo giovane che le stava in sella, dovette rinunciare al recupero per mancanza di prove concrete, nonostante le vaghe risposte e l'atteggiamento sospetto dell'individuo.
Poi fu la volta della vecchia mounty che però in quella circostanza se la cavò, nonostante la feroce aggressione e qualche sevizia. L'ho trovata, un mattino dopo una notte di lavoro, ferita e dolorante accanto all'albero dove l'avevo assicurata, senza una ruota, con le forcelle infilate nel fango: tremo ancora ripensando alla paura e al dolore che avrà dovuto subire!
Per la povera "vecchia mounty" quella non era stata l'unica triste esperienza in cui era dovuta incorrere durante la sua lunga esistenza - la prima volta che l'ho vista, se ne stava malconcia e sola accanto ad un bidone dell'immondizia - ma purtroppo aveva dovuto subire diversi oltraggi prima di scomparire definitivamente, due anni fa: un giorno avevano forzato il lucchetto e dopo averla usata l'hanno riportata poco più in là dove l'avevo lasciata; un'altra volta l'ho trovata senza sella e vi assicuro che non è affatto piacevole pedalare per alcuni chilometri, dopo una giornata di lavoro, senza poter appoggiare i glutei sulla morbida poggia-chiappe che pochi giorni prima le avevo acquistato. Ricordo, durante il tragitto di essere quasi caduto, piombando rovinosamente sopra il cofano di un'auto della polizia che nonostante le mie scuse bofonchiate e uno ostentato sorriso, non parve gradire del tutto.
Ma la cosa più strana e assurda che le è capitata è stata rubarle i morsetti dei freni.
Piccola cosa, direte voi, di poco conto ma vi assicuro molto pericolosa... soprattutto per me.
Dopo alcuni chilometri pianeggianti, prima di giungere a casa c'era da fare una breve ma ripida salita e successivamente una bella discesa dove a metà dovevo svoltare a sinistra; naturalmente in quell'istante occorreva frenare energicamente per compiere l'operazione: vi lascio immaginare la sorpresa nell'accorgermi che la mia bicicletta era completamente sprovvista di freni... fortunatamente non c'era macchine così dopo una piccola e istintiva sterzata mi sono riportato in linea retta fino a giungere nella zona nuovamente piana e con i piedi frenare.
Non vi dico lo stupore!

Ci sono state quelle di cinzia: La prima, una "olandese" che faceva coppia con la mia da uomo, acquistata subito dopo il matrimonio, pesante ma molto elegante, rubata tanti anni fa in stazione, non ricordo i dettagli; la seconda è invece stata trafugata in pieno giorno, durante il pranzo, all'interno del complesso dove abitiamo ma ritrovata, miracolosamente, alcuni giorni dopo in uno stato pietoso, poco distante da casa mentre facevamo una passeggiata, accasciata e malconcia contro una siepe. Non abbiamo mai saputo cosa le fosse realmente accaduto e abbiamo preferito non fare troppe domande. L'abbiamo aggiustata, rimessa a nuovo ma ad essere sinceri, non è più stata quella di prima.
L'ultima è stato il mio più fedele destriero, la grigia martini; sportiva, lesta e robusta con cui avevo battuto ogni genere di strada e con qualsiasi tempo.
Aveva due ruote con raggi rinforzati che davano garanzie assolute; non c'erano, strade sconnesse marciapiedi che lei temesse... ah! se ci ripenso provo ancora un grande dispiacere nonostante siano passati diversi anni dalla sua scomparsa.
In quel periodo fabio se ne serviva per andare in stazione quando ancora frequentava il conservatorio a pesaro. Quel giorno l'aveva legata assieme a quella di alice, unite in un unico abbraccio. Al loro ritorno, alla rastrelliera restavano solamente i cavi d'acciaio tranciati di netto: un lavoro da professionisti! Lungo la strada verso casa decisero di deviare verso il grattacielo e di dare un'occhiata lì attorno con la speranza di ritrovarle, scelta parzialmente fortunata visto che almeno la bici di alice fu rinvenuta. Carichi di ottimismo per il successo ottenuto continuarono le ricerche allargando il raggio d'azione ma niente da fare, della vecchia "grigia" nessuna traccia, purtroppo!
Egoisticamente ho sempre pensato, non senza una punta di vergogna: ma perché non è successo il contrario, non potevano ritrovare la mia?
Ecco questo è tutto.
5 biciclette in tutto sono scomparse dalla mia vita, vi sembrano poche?

Mentre scrivo queste righe nonostante io abbia mascherato il mio dispiacere con qualche frase ironica devo ammettere che provo un filo di tristezza nel ricordare tutte questi velocipedi che ora non ci sono più, questi semplici oggetti che hanno scandito il nostro tempo, le stagioni della vita di questa nostra piccola comunità che è la nostra famiglia,
E' vero, forse esagero ma a volte semplici manufatti acquistano un valore che va ben oltre il loro essere solamente cose, un valore che noi diamo loro, è vero, ma non per questo meno importante, non credete?

stefano



sabato 29 agosto 2009

La finestra sul cortile/2


l'anno scorso avevo pubblicato un post dal titolo "la finestra sul cortile"... beh, ci sono alcuni aggiornamenti da fare. Dopo un anno di probabile palestra, il nostro uomo si esibisce con maggior frequenza - vista la merce da mostrare - con o senza partner, ma rispetto a prima ha aggiunto - durante le performance in coppia - anche il sonoro, che ad essere sinceri, mancava.
Veniamo informati così, caso mai fossimo distratti, dell'inizio delle riprese e devo ammettere che ora lo spettacolo è davvero soddisfacente.
Avevo sentito diversi modi di gemere (sì, lo ammetto la mia è una vera passione) dal ih,ih,ih, simil criceto al aaaaagh leggermente sussurrato, all'ansimare cavernoso dell'orso in letargo ma mai avevo sentito il lamento del lupo abbandonato: davvero straziante... Ho pensato più volte di correre in suo soccorso ma finora ho sempre desistito. Di solito lo spettacolo va in scena dalla mezzanotte alle due, di solito.
Questa mattina, alle 4,45 circa mi alzo per andare al lavoro, scendo le scale e vado in bagno. Accendo la luce e mentre cerco, non senza difficoltà, di riconoscere la maschera che mi fissa nello specchio, sento un lamento terrificante "che cazzo...?"
un brivido mi scorre lunga la spina dorsale madida di sudore "qualcuno sta male, che sia quel poveretto dell'angolo che pare sia depresso..." tendo l'orecchio e mi pare di sentire una sorta di singulto sommesso, poi silenzio.
Finisco di vestirmi e scendo le scale meditabondo (il termine forse è oramai desueto ma mi pare sia calzante per la circostanza) ma appena giungo nel cortile la matassa improvvisamente si dipana: tre finestre al secondo piano, di fronte alla mia palazzina, sono illuminate a giorno, nel buio di un'alba che - ora - tarda ad arrivare, e posso senza alcuna difficoltà scorgere il nostro "piedi a papera" che gironzola tranquillo da una stanza all'altra come mamma lo ha fatto (devo dire che lo ha fatto davvero strano) con una disinvoltura davvero invidiabile... sembra impossibile che fino a poco prima soffrisse così tanto.
Vado al lavorare sollevato

venerdì 7 novembre 2008

Una,nessuna,centomila


Questo è il racconto con cui ho partecipato al concorso letterario "la signorina a colori" sul sito di VDBD
Ad alcuni è piaciuto ad altri no... gli altri sono stati di più degli alcuni, perciò sono fuori. C'est la vie!




... Quando comincia una storia? In genere dall’inizio. A volte, però, è la fine di una storia che ne fa cominciare un’altra. Così ci sono due categorie di storie, quelle che cominciano dall’inizio e quelle che cominciano dalla fine. Ci sono due categorie di donne, quelle che raccontano la loro storia e quelle che non la raccontano, poi ce n’è una terza, quelle che non la raccontano giusta. La signorina a colori…

Questa era la traccia da cui Franco doveva partire per sviluppare il suo racconto.
Franco aveva 44 anni. Da quasi un anno disoccupato. L’azienda per cui lavorava aveva chiuso i battenti per bancarotta, fraudolenta oppure no, non faceva nessuna differenza. Lui a casa senza stipendio e i suoi datori di lavoro in qualche isola tropicale con il malloppo.
In un primo momento non si era particolarmente preoccupato. Data la sua esperienza ventennale nel campo delle comunicazioni era certo che in poco tempo avrebbe trovato un nuovo impiego ma purtroppo era stato troppo ottimista. I giorni, le settimane infine i mesi passavano ma ancora niente. Per fortuna qualche soldo da parte l’aveva messo e Luisa, sua moglie era riuscita a trovare un lavoro sottopagato come ausiliaria in una scuola privata, naturalmente a tempo determinatissimo.
La situazione si stava facendo insostenibile quando, finalmente, poco prima di cadere in preda allo sconforto, un amico gli aveva suggerito di presentarsi presso un grossa agenzia pubblicitaria che stava riorganizzando il personale. Era stufo di pubblicità, ma non era il caso di fare il difficile, ora.
Si erano presentati in tanti per quei tre posti di lavoro e c’erano da superare alcune prove attitudinali.
La prima, quella di computer grafica era stata piuttosto agevole ma ora doveva affrontare quella di scrittura creativa. Gli avevano fornito anche una foto. Per la precisione, la foto di un dipinto raffigurante una “signorina a colori” di cui avrebbe dovuto parlare, raccontarne la storia, come suggeriva l’incipit.
Guardava l’immagine e leggeva quelle poche righe ma l’unica cosa che sentiva crescere in se, era una profonda antipatia per quella donna che a lui pareva più un’acida “madame” che una dolce “mademoiselle”.
Non era certo il momento per perdersi in simili facezie ma finora da quella traccia non gli arrivava nessuno stimolo.
Rammentò quando, l’anno prima, suo figlio tornato dal liceo dopo una prova d’italiano, si era lamentato del fatto che i titoli dei temi erano del tutto privi d’interesse e lui da buon genitore rompiscatole aveva risposto che il bello stava proprio lì, nel riuscire a scrivere un bel testo su un argomento poco allettante.
Ricordò poi, quando al colloquio con l’insegnante delusa per quella “battuta d’arresto”, timidamente aveva tentato di giustificare il figlio dicendole che forse il tema non era stato particolarmente congeniale al ragazzo… lapidaria era stata la risposta della docente, accompagnata da un ironico e laconico sorriso “ma c’erano altri 4 titoli!”
Ironia della sorte, ora c’era lui in quella situazione. Solo che qui non ci si limitava a prendere un sei -, ma ci si giocava un posto di lavoro!
Trasalì al solo pensiero e decise di conseguenza di concentrarsi.
L’inesorabile cadenzare del tempo era evidenziato dall’enorme orologio appeso alla parete di fronte a lui.
Ancora niente! Anche se in realtà, c’era un abbozzo di idea che tentava di germogliare, a cui però, non voleva dare retta. Netta la sensazione che l’avrebbe portato fuori strada.
Un’immagine, ad intermittenza, affiorava nella sua mente. L’immagine di una bambina con il cappotto rosso che ogni tanto entrava in scena in un film girato interamente in bianco e nero. Data la sua maniacale passione per il cinema, dopo alcune ricerche, aveva scoperto che quella bambina era veramente esistita. Ricordava che il regista si era ispirato a un testo di Roma Ligoka, sopravissuta nel lager di Cracovia durante la seconda guerra mondiale. Memoria di una bambina con il cappotto rosso.
Ma si rendeva conto che quella vicenda era troppo delicata e dolorosa da affrontare così su due piedi. Non voleva rischiare una facile retorica.
Poteva, al limite, spostare l’obiettivo sulla giovane interprete del film che sicuramente ora doveva avere attorno ai 25 anni. Facile immaginare per lei, come per molti altri " cattivi ragazzi" di hollywood, dopo un successo precoce, un fatale destino intriso di droga, sesso, alcool. Ma seguendo quella direzione temeva di essere prevedibile e scontato.
Il compito si stava presentando più arduo del previsto.
Se solo non ci fosse stata quella foto!
Franco non avrebbe avuto nessuna difficoltà a scrivere dell’unica “signorina a colori della sua vita… Luisa.
Avrebbe raccontato la sua forza di donna, di come fosse capace di illuminare con un semplice sorriso anche le giornate più grigie, di come avesse affrontato ogni lavoro anche il più umile con grande dignità,
senza mai lamentarsi della fatica, della paga ridicola, della paura, allo scadere, di non vedersi rinnovare il “contratto”, di come miracolosamente fosse riuscita a trasformare tutto questo in qualcosa di gratificante.
Quante volte gli aveva ripetuto che qualsiasi lavoro uno svolgesse, l’importante era non perdere di vista se stessi.
Lei era la donna a colori di cui narrare, ma purtroppo non era quella del ritratto!
Franco cominciava ad innervosirsi.
Spesso i suoi ragionamenti non seguivano un percorso rettilineo ma prendevano mille vicoli laterali e a volte era difficile ritornare sulla strada maestra.
Ma questo non era certo il momento adatto per simili esercizi cerebrali. Ora bisognava essere concreti.
Perciò con un gesto invisibile ma efficace resettò la mente e appoggiate le dita sulla tastiera cominciò.
La signorina a colori – la chiamavano così per la quantità di cappelli e sciarpe che solitamente sfoggiava - era visibilmente irritata. Da almeno dieci minuti, seduta al tavolo del cafè Cavour, aspettava Filippo, suo giovane e aitante accompagnatore. Donna molto affascinante ma soprattutto ricca e potente. Era sposata con un uomo insignificante ma molto ambizioso che grazie al suo appoggio economico, ricopriva un ruolo di spicco nella scena politica del paese. Naturalmente Filippo non era suo marito, ma solo un amabile “divertissement”...

stefano mina


lunedì 25 agosto 2008

elogio alla fuga...le storie/9


storie, racconti, aneddoti...ecc.ecc.



Al ritorno di brevi ma bellissime vacanze toscane presso volterra, ci trovammo, la mia famiglia ed io, all'ora del pasto, in una zona boschiva dell'appennino tosco-romagnolo.
Gli stomaci brontolavano, perciò senza indugi al primo cartello che indicava un posto di ristorazione svoltammo nella direzione indicata: un vecchio castello (completamente rimosso dalla memoria) con annesso ristorante.
Accecati dalla fame entrammo in una sala esterna situata sotto una grande tettoia e scelto il tavolo ci sedemmo senza fiatare.
Di lì a poco arrivò un cameriere con il menù e un cesto di pane che fu immediatamente aggredito ( il cestino) dai miei figli... d'accordo anche da me e da mia moglie.
Masticando un boccone cominciai a sfogliare lentamente il menù:
" Che cosa c'è stefano, perché fai quella faccia?"
La voce di Cinzia giungeva lontana e un pezzo di pane mi si era incagliato in un certo punto dell'esofago...
I prezzi erano spaventosamente alti!
Cominciai a cambiare colore, dal bianco cadavere al rosso tedescoiprimigiornidivilleggiaturaarimininelmesediluglio
e con calma - si fa per dire cominciai a ragionare sul da farsi. I minuti passavano inesorabili. Del cameriere ancora nessuna traccia.
Dopo un breve conciliabolo prendemmo l'unica decisione possibile.
Con non chalance ci alzammo e elegantemente ce la squagliammo.
L'uscita della sala era proprio vicino al corridoio interno al ristorante. In lontananza vidi arrivare il cameriere che si avvicinava sempre di più:
...e uno, fuori Luca, e due, Fabio e tre, Cinzia... quando fu il mio turno mi trovai proprio davanti all'uomo con la camicia bianca. Il suo sguardo - sorpreso - incrociò il mio - accigliato -. Con le sopracciglia inarcate sgranai gli occhi e con il dito indicai l'orologio e dissi con la faccia come il cosiddetto culo : " è mezz'ora che aspettiamo"... e quattro! Fanculo.
Sentì, finalmente, il boccone scivolare giù.
Sembrava fossimo scappati da Alcatraz, tanta era la sensazione di libertà!

stefano mina



seduti in un caffè in galleria a Milano, in cinque, dalla campagna alla città. Avevo provato a dissuadere, esperta della tentacolare metropoli, ma nessuno mi aveva dato ascolto. Il cameriere porta la lista e ci lascia il tempo di ordinare. Apriamo, allungo la lista al marito e sottolineo col dito: caffè, seimila lire.
Ci siamo alzati all'unisono, che sembravamo quelli del nuoto sincronizzato, e ci siamo dati alla fuga.

annalisa


Era il ’92, Mario era una lieve sardina che sguazzava nel carrozzino; Chiara, la peinteur che svolazza per l’ Indrè de France, era un rotondo palloncino di nove anni.
Quella mattina d’agosto si decise: gita in montagna. Napoli non ha montagne, si va’ al Taburno; il Matese è troppo lontano, faticoso per i bambini, il Taburno, la più brutta montagna del globo terraqueo, con poca vegetazione e senza corsi d’acqua, una specie d’Afghanistan campano... (continua)
-"Francè, gli zii mi hanno detto che questo monte è fantastico, ma portatevi una tanica d'acqua..."
Mia moglie, una ruvida tigre, a mezzo tra la regina Vittoria e Sabrina Ferilli (burbera come sua maestà, ma con le tette come la Ferilli: l'avrò sposata per amore?).
La Panda Fiat 750 aveva 4 marce, ma non servirono, ogni tanto se inforcavi la 3° era meglio non lasciare la frizione, lo facevi con affetto, era la 2°, la marcia nuziale di quella mulattiera! Fu bello stare li, perchè guardavi le altre montagne, il bellissimo Matese e l'inizio degli appennini, lui, il Taburno mesozoico, era meglio non rasentarlo con lo sguardo, un velo di tristezza da ritirata di Russia lo copriva ed un freddo terrifico lo spazzava (a valle avevamo lasciato 39, allegri, gradi). All'una del pomeriggio la tigre branì (Cerva?):"I bambini hanno fame:trova un ristorante!"
Alle 2, mentre Chiara, travolta dalla fame, cantava a squarciagola "...due elefanti, si arrampicavano sul filo di una ragnatela...", io mi arrampicavo tra tornanti e andanti (nel senso che spesso tornavo indietro dopo essermi perso)senza trovare neanche un rustico con una caciotta.
La madre di tutte le madri, la leonessa che vede i bambini deperire, mentre quel pirla del leone si crogiola al sole, mi colpì più volte sul sopracciglio con un'ombrello ("dove cazzo hai trovato un ombrello ad agosto?" - "era per proteggere i bambini dal sole, ora mi serve per proteggerli dalla tua inettitudine!").
Eccolo! Bar-Ristorante da Alfredo: entriamo? C'era da dirlo? Entrammo!
La sala con una decina di tavoli, dipinta di bianco-cielogrigio-quando-vorrebbe-piovere. I tavoli di fòrmica marron, alle pareti una vecchia foto di Papa Giovanni e quella di un cinghiale, pensai: dev'essere un posticino coi fiocchi, rustico e casereccio (lo ammetto, fui fottuto dalla foto col cinghiale, non mi resi conto che i cinghiali raramente si fanno fotografare seduti: dopo ripensandoci, intuìi che era un dagherrò del capostipite).
Un quarto d'ora dopo, quando Chiara aveva spelacchiato un cesto di margherite, spargendole sul pavimento, arrivò Attila.
Si abbottonava la giacca bianca velocemente, sbagliando le asole e inciampando su di una vecchia scopa si abbattè quasi sul tavolo e melifluamente chiese:"Preco?" (con la C)
"Che c'è da mangiare?"
Posizionò tre dita al centro del cranio e grattando della forfora che si staccava miracolosamente dai capelli stuccati di una odorosa Brillantina Linetti rispose: "Qualsiasi cosa!"
Come "qualsiasi cosa", diceva Tonia, mentre lui andò via per imbandire, questi non hanno neanche un menù?
"Dai, ci faranno cose genuine, preparate al momento!"
Attila tornò. Imbandì con un pezzo di sottocarta bianca da parati la tavola, poi la catarsi. Dopo essersi grattugiato la punta del naso prese un mazzo di posate da un cassetto, reggendole dalla parte dell'imboccatura e le posò a tavola. Tonia impugnò l'ombrello (spuntava da tutte le parti), io tremavo, con classe. Poi, il cameriere fece l'ultima, ficcò le mani in tre bicchieroni di vetrone infrangibile (le unghie nere di lutto toccavano il fondo opaco di calcare)e li posizionò a tavola.
L'urlo di Tonia squarciò la pace funerea del monte: "E basta! Via, via!"
"Chi io?" latrò il cane impomatato travestito da servo.
"No, noi!"
E trascinandoci come masserizie di un accampamento Rom, invaso dai naziskin, Tonia ci indusse ad uscire fuori, mentre il domestico quasi scappava in cucina.
Fu tutto un fuggi-fuggi.
Arrivai a valle con uno strano fumo che usciva dal cofano (freni) e con l'ombrello puntato nel fegato.
Poi trovammo un fast-food che stava quasi chiudendo e fummo felici (non ricordo se la notte facemmo l'amore, c'era un ombrello nel letto).

francesco di domenico


anno 1976.
il contesto è confuso: politica sesso droga e rock & roll.
notti passate a girare con gente improbabile per bettole e case-comune-accampamento.
sperimentazioni chimiche le più varie. praticamente tutto quello che si trovava veniva provato. così, perchè tanto chissenefrega. e qualunque cosa è meglio della realtà.
una sera di tarda estate, alla ricerca di fumo con un paio di amici, finiamo in un quartiere periferico abbastanza malfamato, in un appartamento condiviso da uno che conoscevamo ed altri. tutti pusher, praticamente una cooperativa.
solito rituale, acquisto e assaggio offerto dal dealer che si offende da morire se non accetti (anche gli spacciatori hanno un'anima).
poi uno dei conviventi tira fuori una bustina, un cucchiaino, un limone e una siringa. io. che ero già piuttosto fatta, rimango stranita a guardare il rituale. lui prepara, si sfila la cinta dai pantaloni, se la stringe coi denti intorno al braccio e si spara mezza pera. sfila l'ago e fa: volete?
silenzio.
io raccatto le forze, mi alzo e dico: scusate ho un impegno.
giro sui tacchi e via.
sola, nel mezzo del nulla, appiedata.
sono arrivata a casa tre ore dopo.

sono molto felice di essere scappata.
scappata a quella che conoscendomi sarebbe stata la mia fine.
perchè l'eroina l'avevo sniffata, un paio di volte.
e mi era piaciuta da morire.

gea


La mia fuga, poco più di un anno fa.
È arrivato con le valigie a casa mia sei settimane dopo il nostro primo appuntamento, battendo sul filo di lana il traguardo dei miei primi trent'anni. E sono cominciate le montagne russe: sei mesi di felicità folle e di abissi terribili, in cui scoprivo sempre più quanto fossimo diversi, quanto quell'uomo che mi faceva sentire amata, unica e indispensabile mi stesse stringendo intorno lacci sempre più stretti e soffocanti. Niente più amiche, niente più cinema, niente più montagna o vela: solo lui ed io, una monade di passione e possessività insensata. Adorata come una dea ma costretta a rinchiudermi nella gabbia dorata della perfetta femmena 'e casa. La sensazione che mi mancasse l'aria. Il tarlo, sempre più profondo, che la rinuncia a me stessa non servisse a far funzionare gli ingranaggi di quel meccanismo meraviglioso e infernale in cui lui chiedeva sempre di più e io mi sentivo svuotare. Tutte le mie energie per lui, energie che non bastavano mai.
Finché un giorno, dopo l'ennesima, furibonda litigata, ho detto la più banale delle frasi: “Torno dai miei”. Quando ho chiuso la porta alle mie spalle, non sapevo se sentissi più intensamente la perdita o la liberazione.
Poche settimane dopo avevo in una mano il timone e nell'altra la scotta di randa e solo mare e vento intorno a me.

lanoisette




Mio padre me lo ripeteva ogni volta:
“Qualsiasi cosa accada, non si scappa. La si affronta”
E io, tutte le volte, assentivo. Con grande serietà.
Era un uomo con delle convinzioni, e cercava di instillarle anche a me.
Però era anche piuttosto severo.
E se avesse saputo di quella nota sul diario, datami in circostanze piuttosto controverse dalla professoressa di italiano, avrei sicuramente passato un brutto quarto d’ora.
Dovete considerare che:
primo avevo 13 anni, quindi ero ancora passibile di punizioni corporali;
secondo era il 1975, epoca nella quale il Telefono Azzurro era ancora molto lontano dalla sua nascita.
Così presi la decisione di non dirgli niente, e di tentare di contraffare la firma di mio padre sotto alla maledetta nota.
Ad operazione conclusa, le due firme si assomigliavano come un gatto può assomigliare ad una portaerei.
Non avrei mai ingannato nessuno, e allora si che sarebbero stati dolori.
Fu mentre paventavo punizioni a base di frustate, ferri roventi e vergini di Norimberga, che come un cospiratore si palesò alle mie spalle uno dei miei migliori amici di allora.
“forse un modo di sfangarla c’è…” disse scuotendo una sigaretta immaginaria
“magari” risposi io con voce d’oltretomba. Poi, speranzoso “e sarebbe?”
“È semplice: tu devi semplicemente mangiare l’appuntatura di una matita: questo ti provocherà un tale mal di pancia che dovranno mandarti a casa… “
“Ma sei sicuro?”
“l’ho letto… “
Ero un ragazzino ingenuo, e poi che avevo da perdere? Appuntai un lapis per abbondanti 5 centimetri e buttai giù tutto il legno e tutta la grafite ottenuta. Poi mi misi in speranzosa attesa.
Non dovetti attendere molto: sarà stato il nervoso, sarà stato l’effetto placebo, ma di lì a poco nelle mie viscere si scatenò l’inferno. Era come se qualcuno mi strizzasse lo stomaco e cercasse di legarlo alla parte più nascosta dell’intestino con del filo spinato. Rovente.
Arrivò l’ora di Italiano. La professoressa fece l’appello e attaccò a spiegare. Nel mio intestino intanto si era scatenata una battaglia a colpi di piccone. A quel punto non ce la feci più: alzai la mano e mormorai “professoressa, non mi sento be…”
Il “ne” finale si sparse sul pavimento, insieme alla colazione, ad abbondanti succhi gastrici e a buona parte della cena della sera prima, che evidentemente il nervoso non mi aveva permesso di digerire, fra le urla di raccapriccio della maggioranza della classe, e il ghigno mefistofelico del mio amico.
Fu un tredicenne bianco come un nevaio quello che i miei genitori si videro riconsegnare da una bidella piuttosto schifata qualche decina di minuti dopo.
Ma della nota sul diario, da quel giorno, nessuno parlò più.

southwest



- Ma tu vesti sempre così classico?

G. aveva passato il palmo della mano sui miei pantaloni, all'altezza della coscia ed io non riuscii a trattenere un fremito, abortito tentativo di scostarmi. Per eccesso di cortesia (o di laico rispetto umano) rimasi al mio posto, abbozzando pure un mezzo sorriso, mentre rispondevo

- No, di solito preferisco i jeans, ma in questi giorni lavoro presso un cliente...

E giù a raccontare dettagli del mio lavoro che non fregavano a nessuno. L'importante era non far rimanere male G. E dissuaderlo da nuovi tentativi di contatto.
L'avevo conosciuto quando viaggiavo sulla linea ferroviaria Genova-Milano e prendevo l'intercity della 10,08.
A quell'ora non c'era molta gente che saliva sul treno, non era certo un problema trovare posto. Tuttavia usavo posizionarmi sul binario all'altezza delle carrozze di coda, per sfruttare la distribuzione gaussiana dei passeggeri e trovare spesso l'intero scompartimento libero, un'oasi di solitudine e silenzio prima del caotico CED che mi attendeva a Milano.
Due o tre giorni la settimana G. prendeva quel treno, aspettandolo nello stesso segmento di banchina su cui attendevo io.
Era un uomo sulla cinquantina, magro, non molto alto, il viso scavato, gli occhi che parevano febbricitanti. A parte un marsupio, non portava niente con sé. Per qualche tempo non ci furono contatti, al di dà di una rapida occhiata, un "riconoscersi". Arrivava il treno e ognuno di noi andava ad occupare uno scompartimento diverso.
Un giorno di particolare affollamento si sedette di fronte a me. Io leggevo, lui pareva contemplare una di quelle brutte stampe affisse sotto il ripiano dei bagagli. Al momento di scendere mi parve educato rivolgergli un saluto, a cui rispose a bassa voce.
Due giorni dopo lo ritrovai e, questa volta, scelse deliberatamente di sedersi nel mio scompartimento.
In genere sui treni leggo, ma se percepisco che qualche compagno di viaggio preferirebbe far due chiacchiere mi presto volentieri. Mi piace ascoltare gli altri, spesso mi fa sentire bene lo scambio di battute con viaggiatori sconosciuti.
Mi parve che G. avrebbe gradito un po' di conversazione ma che fosse troppo timido per iniziare. Così buttai lì qualche osservazione a carattere generale (non ricordo a proposito di cosa). Lui rispondeva a bassa voce e frasi brevi, con una voce vagamente nasale.
Ci presentammo, io raccontai brevemente del mio lavoro (lui non mi disse niente del suo), scoprii che G. passava spesso in bicicletta dal mio paese (a dire il vero, non ricordavo di averlo mai visto, e mai lo vidi dopo), che viveva da solo in un appartamento.
Alla ricerca di argomenti di conversazione più interessanti del tempo e del traffico, gli parlai di libri, di musica, persino, con cautela, di politica, ma pareva non gli interessasse nulla.
Alla stazione successiva entrò una persona e il nostro dialogo rapidamente terminò. Io ripresi a leggere, lui a concentrarsi sulla
stampa.
Contrariamente alle aspettative, lo trovai lungo il binario anche il giorno dopo. Mi salutò con una certa vivacità e, neanche a dirlo, si sedette di fianco a me, a mia volta posizionato accanto al finestrino.
Eravamo partiti da pochi minuti quando si allungò per tirare le tende. Ad un mio sguardo interrogativo rispose che la troppa luce gli dava fastidio. La cosa mi irritò, avevo tirato fuori un blocco note con appunti per un lavoro ed ero intenzionato a preparare alcuni schemi. E poi, la conversazione di G. non era granché. Comunque, feci finta di niente ed iniziai a scarabocchiare qualche grafico.
Poco prima di raggiungere la stazione successiva si alzò e tirò pure le tende della porta d'ingresso. Senza esserne richiesto, mi disse che così avremmo dissuaso i passeggeri che sarebbero saliti di lì a
poco ad entrare. Prima che potessi ribattere, si risedette ed iniziò a raccontarmi del suo giro in bicicletta del giorno prima, di come fosse ancora una volta passato per il mio paese.
Fu proprio mentre rispondevo con frasi di circostanza, seccato per
questo oscuramento imposto, che mi sfiorò la gamba, chiedendomi delle
mie preferenze in fatto di abbigliamento.

- Ma tu vesti sempre così classico?

- No, di solito preferisco i jeans, ma in questi giorni lavoro presso un cliente e mi è stato insistentemente suggerito di vestirmi come si deve.

- Ah, capisco. Sai, a me piace stare comodo. Per esempio, non ci crederai, ma mi trovo bene con mutande tipo perizoma. Le conosci?

- Credevo fossero tipicamente femminili
(ma di che va cianciando, questo?)

- No, no, ci sono anche da uomo. Sono comodissime, sai?

- Certo, certo...
(me lo immagino...)

Un po' imbarazzato, finsi di cercare qualcosa fra i miei appunti, nonostante la penombra. Lui non si diede per vinto.

- E a casa mi piace stare completamente nudo, avvolto in un accappatoio...

- Eh...
(che cazzo sta dicendo?)

- Ma... hai un orologio fantastico!

E mi prese più o meno delicatamente il polso desto (benché non sia mancino, ho sempre portato l'orologio a destra).
A questo punto avevo capito le intenzioni di G., ma la dannata cortesia mi tratteneva dal fare gesti bruschi per divincolarmi.

- Sì, me l'ha regalato la mia FIDANZATA

e intanto gli scostai la mano. Seguirono un paio di minuti imbarazzati. Nel frattempo il treno fece una fermata. Mi decisi in un attimo:

- Io scendo qui, oggi devo incontrare un consulente per quel
lavoro... be', insomma, buona giornata e alla prossima! Ciao!
Non ricordo se mi rispose. Scesi veramente dal treno e aspettai il
successivo, un'ora e mezza dopo, arrivando in ritardo.
Dopo quel giorno inizai ad aspettare il treno nella zona dei vagoni di testa. Le poche volte che incrociai ancora G. feci finta di non vederlo. Poche settimane dopo cambiai orari e non mi capitò mai più di incontrarlo. Di certo, non in bicicletta al mio paese.

mario



Fuga alla ricotta

Calabria, 1978

Eravamo in vacanza a Tropea quando ancora non si sapeva delle omonime cipolle. Le mangiammo là e le trovammo dolcissime, sorprendendoci. Qualche anno dopo le avremmo conosciute come "cipolle di Tropea". Ma questo non c'entra nulla con la mia storia.
Allora, eravamo in Calabria ed eravamo in sei: tre coppie di amici.
Mare, sole e relax.
Un giorno, causa il troppo sole preso e la pelle arrossata, decidemmo di prenderci una pausa dal mare e di esplorare l'interno. Partimmo in auto e facemmo un bel giro. Ad un certo punto (la fame iniziava a mordere lo stomaco) decidemmo di fermarci a comprare qualcosa per un picnic improvvisato.
C'era un negozietto sul lato della strada e ci sembrò ben fornito. Entrammo e lo trovammo, infatti, zeppo di cose buone. Comprammo di tutto: salame piccante, pane in quantità industriale, provola e altri formaggi, piccanti e non, stuzzichini, e infine la signora ci portò fuori e ci mostrò delle ricottine appena arrivate, freschissime, dentro deliziosi canestrini di giunco foderati da foglie verdi. Inutile dire che aggiungemmo anche le ricottine alla nostra gigantesca spesa. Gli uomini si accollarono il peso delle buste (che noi a Bologna chiamiamo 'sportine') e noi ragazze (beh, all'epoca lo ero davvero, una ragazza. ero giovanissima. comunque io penso ancora a me come ad una ragazza. a volte anche come ad una bambina ma sto uscendo dal seminato) ci occupammo di pagare il conto.
Dunque, disse la signora tirando le somme, sono quindicimila lire ( o giù di lì, non ha importanza. era il 1978). Ok, dissi io con il portafoglio in mano e allungando i soldi.
No, no, pagate pure a mio fratello dentro. Ok, andiamo dentro e cerchiamo il fratello, sempre con i soldi in mano. No, no, è mia sorella che si occupa dei conti, pagate pure a lei. Ok, ma cominciavamo a romperci i portafogli di girare avanti e indietro. Torniamo fuori: dice suo fratello di pagare a lei. No, dateli a lui. Ok, entriamo di nuovo, poi ci guardiamo in faccia: questi i soldi, mica li vogliono. Forse è meglio che andiamo via.
Uscimmo uno dopo l'altro con la certezza di non aver rubato. Noi volevamo pagare e ci abbiamo provato davvero, ma non c'è stato nulla da fare. Quelli i soldi non li volevano. Non vi dico la bontà di quelle ricottine e di quei panini pieni di ogni bendidio.

morena fanti


La fuga

Fuggiva senza inseguitori. Fuggiva ed in quel correre vorticoso fendeva l’aria fredda a finire della notte, i vapori della terra, le fronde degli arbusti, i respiri della nebbia. Il sudore scendeva in rivoli gelidi lungo le tempie le guance, la bocca, il collo proteso, la schiena in avanti. Le mani a pugno scalciavano colpi nel vento. Un ritmo di corsa, un soffio d’affanno. La fronte contratta in quella ruga traversa a spezzare la pelle ancora soda compatta. Sulla schiena uno zaino malandato, liso al cordolo di contorno e quasi vuoto. Dentro una borraccia, mezzo toast rosicchiato, un pacchetto di fazzolettini. Non aveva soldi con sé, né libretto d’assegni, né carta di credito. Non una chiave.
I piedi battevano un tempo veloce, le scarpe di marca consunte donavano ancora al polpaccio una spinta d’elastico molle. Pensava al momento dell’acquisto, era grato alla commessa del “Pentatlon”, brutta come uno scorfano, ma così gentile, che l’aveva brillantemente consigliato. Non aveva badato a spese allora, ma ora di questo acquisto era pienamente soddisfatto. Gli tornavano utili scarpe così. Robuste, leggere per correre in fretta, per chi non poteva fermarsi, per raggiungere il cielo in quel punto lontano.
Aveva bisogno di correre. Era un fatto vitale. Seminare ogni angoscia. I pensieri alle spalle non gli davano tregua. La moglie depressa, il capo villano. Uno stronzo perfetto da augurargli ogni male. Lo isolava dal gruppo dirigenziale, lo rapinava di idee, succhiava il suo impegno senza riconoscergli merito e soprattutto l’aumento. Aveva bisogno di quei soldi. Progetti grandiosi. Una barca: almeno otto metri, un appartamento più grande, cambiare l’arredo e un’ amante da sogno.
Gli piaceva sognare, scaricare nel sogno ogni tensione, la corsa batteva il tempo dell’immaginazione. Non c’erano inseguitori, solo la vita, nel suo solito scorrere, mordeva il suo cuore.
Alle sette, tra appena mezz’ora, avrebbe dovuto essere pronto: giacca, cravatta e davanti un’altra dura giornata da direttore.

alivento




















domenica 24 agosto 2008

elogio della fuga


"Didò, dove sei finito... mi hai piantato con le pizze in mano e te ne sei andato... guarda che la mozzarella si rapprende, poi fa schifo....?"

Questo commento che ho lasciato a didò più in basso mi ha fatto venire in mente una cosa che mi è successa alcuni anni fa:

Al ritorno di brevi ma bellissime vacanze toscane presso volterra, ci trovammo, la mia famiglia ed io, all'ora del pasto, in una zona boschiva dell'appennino tosco-romagnolo.
Gli stomaci brontolavano, perciò senza indugi al primo cartello che indicava un posto di ristorazione svoltammo nella direzione indicata: un vecchio castello (completamente rimosso dalla memoria) con annesso ristorante.
Accecati dalla fame entrammo in una sala esterna situata sotto una grande tettoia e scelto il tavolo ci sedemmo senza fiatare.
Di lì a poco arrivò un cameriere con il menù e un cesto di pane che fu immediatamente aggredito ( il cestino) dai miei figli... d'accordo anche da me e da mia moglie.
Masticando un boccone cominciai a sfogliare lentamente il menù:
" Che cosa c'è stefano, perché fai quella faccia?"
La voce di Cinzia giungeva lontana e un pezzo di pane mi si era incagliato in un certo punto dell'esofago...
I prezzi erano spaventosamente alti!
Cominciai a cambiare colore, dal bianco cadavere al rosso tedescoiprimigiornidivilleggiaturaarimininelmesediluglio
e con calma - si fa per dire cominciai a ragionare sul da farsi. I minuti passavano inesorabili. Del cameriere ancora nessuna traccia.
Dopo un breve conciliabolo prendemmo l'unica decisione possibile.
Con non chalance ci alzammo e elegantemente ce la squagliammo.
L'uscita della sala era proprio vicino al corridoio interno al ristorante. In lontananza vidi arrivare il cameriere che si avvicinava sempre di più:
...e uno, fuori Luca, e due, Fabio e tre, Cinzia... quando fu il mio turno mi trovai proprio davanti all'uomo con la camicia bianca. Il suo sguardo - sorpreso - incrociò il mio - accigliato -. Con le sopracciglia inarcate sgranai gli occhi e con il dito indicai l'orologio e dissi con la faccia come il cosiddetto culo : " è mezz'ora che aspettiamo"... e quattro! Fanculo.
Sentì, finalmente, il boccone scivolare giù.
Sembrava fossimo scappati da Alcatraz, tanta era la sensazione di libertà!

E voi cari amici avete qualche episodio analogo da confessare... siete mai scappati da qualcosa, da qualcuno e cosa avete provato, vergogna, imbarazzo o piacere?
spedite le vostre storie... dopo, magari le raggruppiamo tutte assieme come tanti racconti.
stefano