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venerdì 22 dicembre 2017

UN ALTRO RACCONTO DI NATALE

Ne han raccontate tante
di storie del Natale
mica una sola, a palate
ma di questa meno male,
manco una parola, ascoltate
prosa semplice e qualche verso
per l’umana fiaba, mai banale
di chi si immaginava diverso
per scoprirsi infine, uguale
Erano rimasti due uomini all’interno dell’osteria “I briganti”, la sera della vigilia di Natale. Uno stava dietro al banco e ed era Giovanni Pignasecca, l’irascibile e corpulento proprietario del locale chiamato dai clienti più assidui “Esentasse” perché nessuno l’aveva mai visto fare uno scontrino, e l’altro era suo cognato, Franco Dalsenno chiamato “il Verza” perché oltre essere vegetariano si dilettava con la letteratura, con la poesia, e spesso improvvisava versi durante le chiacchierate. I due erano alle prese con la regina delle discussioni, da bar e non solo, di questi ultimi anni, quella che non manca mai, sia che si parlasse di politica o di qualunque altra cosa, ed era la questione “migranti” Naturalmente i due affrontavano l’argomento senza tralasciare né i ma né i se; d’altra parte in qualità di tuttologi, titolo onorario oramai condiviso equamente fra i frequentatori di bar e quelli della rete, era loro consentito, senza alcun timore, di liberare parole senza l’incomodo di una eccessiva riflessione.
“Ma proprio qua, dovevano venire?”
“A casa loro li dobbiamo aiutare, tutta l’Africa in Italia non ci sta, lo vuoi capire o no?!”
“Il lavoro qua non c’è. Prima gli italiani, poi i nero-fumo”.
“Mica han voglia di faticare, questi qua”.
“Arrivano con le pezze al culo e subito pretendono”.
Il corpacciuto Esentasse elencava questo insieme di luoghi comuni con una tale veemenza che i pochi capelli del Verza si muovevano come fili d’erba fustigati dal vento. Il suo volto era così rosso da far pensare che di lì a poco avrebbe preso fuoco.
“Ma scappano dalla miseria, dalla guerra…”, provava timidamente a reagire suo cognato. “Per una promessa di terra…”
Poi prendendo coraggio:
“attraversano il mare,
Rischiano la vita
Per un boccone da mangiare
Per una via d’uscita”.
Ma i suoi toccanti versi non facevano effetto sul sempre più isterico locandiere.
“Non sono affari miei,
e non darmi del razzista
ho pure un amico gay
sei il solito buonista!”
Non si può negare che non gli rispondesse per le rime. E aggiunse senza quasi respirare: “Tutta un’altra cultura dai, guarda come trattano le donne!”.
Ma Franco non era certo un tipo arrendevole:
“Parli proprio tu, santo cielo
Guarda come tratti mia sorella, tua moglie
Certo non la costringi al velo
Ma lasciamo perdere che è meglio”.
E dopo l’assonanza continuò ma ora solo malinconica prosa:
“I popoli ricchi li sfruttano da anni con la complicità dei loro governanti avidi e compiacenti offrendo loro solo povertà e ora che vorrebbero anch’essi la loro piccola parte, quel pizzico di benessere spettante a ogni essere umano, un tozzo di pane, noi li respingiamo verso le braccia dei loro aguzzini, verso un destino infame…”.
“E basta! Lo interruppe nuovamente Giovanni con le vene della fronte rigonfie.
“Ti ripeto che IO non mi sento in colpa, questo è il nostro paese e facciamo entrare solo quelli che ci pare, mica tutti i delinquenti e i vagabondi del pianeta, questi sono islamici, questi buttano le bombe, questi ci tagliano la gola nel sonno… Svegliati!”.
“Sì, sì, continua pure a mettere tutti nello stesso calderone”, pensò Franco. Però sul fatto che si dovesse svegliare in fondo quel “basico” di suo cognato non aveva tutti i torti; doveva smetterla di cercare di usare la ragione con chi preferiva dare sfogo ai propri istinti elementari. Si sentiva svuotato ma anche arrabbiato con se stesso. Perché si era fatto trascinare ancora una volta in questa ennesima e inutile discussione?
Sì allontanò dal banco e si diresse mestamente verso la porta; afferrò la maniglia e prima di uscire si girò verso l’incandescente cognato, disse:
“Ciao Giovanni, ci vediamo più tardi al Cenone”.
L’altro con le mani immerse in un catino d’acqua bofonchiò fra i denti che dopo aver chiuso il locale sarebbe prima andato alla messa delle 23 e 15 e poi li avrebbe raggiunti.
“Già, la messa, vai a confessarti che è meglio”.
“Cosa?”.
“Niente, niente, a dopo” e uscì dalla locanda.
Giovanni, rimasto solo, terminò di sistemare alcune cose e poi tirò fuori l’incasso del giorno disponendolo in piccoli mucchietti sul bancone del bar. Prese un grande astuccio nel cassetto e si chinò per prendere lo zaino che teneva nello sportello sotto alla cassa. Proprio in quel mentre la porta d’ingresso si aprì.
“Cavolo, non ho chiuso” disse a voce alta mentre si rialzava.
Appena vide l’uomo entrare sentì un’ondata di calore in viso. La carnagione dell’ospite inatteso non lasciava dubbi sulla sua provenienza e per il pregiudizio di Giovanni, neppure sulle sue intenzioni.
“Dove credi di andare, non vedi che ore sono? È chiuso!”. Il tono era tutt’altro che amichevole.
L’uomo intanto si era avvicinato e sorridendo disse mettendo una mano nella tasca: “Mi scusi, volevo chiederle se poteva…”.
Ma Giovanni, che ora era uscito da dietro il bancone, non lo fece finire e gli si parò davanti con quel suo torace a due ante. “Ti ho detto che è chiuso…non fare un altro passo altrim…”.
La parola gli rimase per metà in bocca e con una smorfia di dolore si portò una mano al petto e si accasciò a terra come un burattino cui abbiano reciso i fili.
Quando riaprì gli occhi, la luce della stanza, nonostante fosse fioca, gli ferì gli occhi e solo dopo qualche istante riuscì a guardarsi attorno. Era steso in un letto e le ossa gli dolevano in un modo mai provato prima. Le pigre gocce che scivolavano in un tubicino trasparente fino a penetrare nel suo braccio sinistro non lasciavano dubbi sul luogo in cui si trovava ma ulteriore conferma fu l’uomo con il camice bianco che parlava a bassa voce con Franco suo cognato e sua moglie Chiara, vicino alla finestra della stanza.
Era in ospedale, d’accordo, ma perché, cosa gli era accaduto?
Nella sua mente la nebbia si diradò e gli ultimi ricordi si riaffacciarono sufficientemente vividi per scuoterlo dal suo torpore.
“I soldi sul bancone, quel negro, mi ha derubato”.
Quelle parole uscirono dalle sue labbra in modo completamente incomprensibile, un leggero gorgoglio, sufficiente però a destare l’attenzione delle tre persone.
Chiara fu la prima ad avvicinarsi. “Ci hai fatto prendere un bello spavento, questa volta”. Gli appoggiò una mano sula fronte come a saggiarne la temperatura.
Giovanni riprovò a formulare qualche parola ma lo sforzo fu inutile.
“Calma, non ti devi agitare” disse la donna accarezzandogli il viso.
Nel frattempo anche il medico si era avvicinato al capezzale e con un sorriso professionale tastò il polso del paziente. “Signor Pignasecca, il peggio è passato. E’ stato un vero miracolo ma…”.
Giovanni gli prese a sua volta la mano e con un residuo di forze gliela strinse e lo guardò negli occhi con lo sguardo implorante.
“Già, immagino che lei non sappia per quale motivo si trovi sdraiato in un letto d’ospedale” disse il dottore. “Vede ieri sera, verso le 23 lei è stato colto da un infarto del miocardio e …”.
La porta si aprì lentamente e nella stanza si affacciò un uomo; nelle mani una bottiglia d’acqua.
Giovanni lo vide e sgranò gli occhi indicandolo.
“Ecco il suo salvatore” riprese il medico “se non fosse stato per lui, difficilmente staremmo qua a parlare lei ed io; come dicevo poc’anzi, un vero miracolo!” Poi aggiunse sorridendo: “Tra l’altro siamo in tema mi pare, e la sua si può definire a tutti gli effetti una vera e propria rinascita”.
“Pensi” continuò il primario “il caso ha voluto che lei si sentisse male proprio nell’istante in cui il signor John Okore è entrato nel suo bar per chiederle dove si trovasse la Chiesa di S. Francesco avendo l’intenzione di assistere alla funzione della Vigilia ma non conoscendone l’esatto indirizzo. Ma la sua fortuna non è finita lì, il signore essendo pratico di primo soccorso avendo esercitato per tanti anni presso una nota ong si è attivato per farle prontamente un massaggio cardiaco così da tenerla in vita fino all’arrivo del 118 munito di defibrillatore. Ora noi le abbiamo disostruite le arterie e applicato uno stent”. S’interruppe un istante vedendo una specie di smorfia sul viso del paziente pensando che fosse dovuta all’apprensione. ”Non si deve preoccupare, caro Giovanni, l’intervento è perfettamente riuscito; Lei ora deve solo riposare per recuperare le forze; L’importante è che, per almeno ventiquattrore, lei stia il più possibile immobile perché siamo dovuti passare dall’arteria fem…”
Il medico continuava ma Giovanni non lo ascoltava più; mille pensieri come coriandoli impazziti volteggiavano nella sua mente confusa. Guardò l’uomo a cui doveva la vita avvicinarsi sorridendo a sua moglie Chiara e porgerle la bottiglia d’acqua. Anche suo cognato si era accostato al letto e in mano teneva uno zaino, quello stesso zaino dove lui solitamente riponeva l’incasso del giorno. “ Non ti preoccupare per i soldi Giovanni” disse Franco, il signor Okore ha pensato di raccoglierli dal bancone dove li avevi lasciati e ce li ha consegnati appena ci siamo incontrati. Non era il caso di lasciarli lì, in bella vista, no?”.
Giovanni non disse niente. Davvero difficile trovare parole opportune in simili situazioni. Si limitò a fare un segno di assenso con la testa e dal suo volto stanco ma sereno spuntò un abbozzo di sorriso; con gli occhi lucidi cercò quelli dello sconosciuto dalla pelle scura e quando li incontrò finalmente lo riconobbe.

giovedì 27 luglio 2017

LA CONGIURA DI INNOCENZO

Drinnnnn!
“Accidenti!” disse Innocenzo.
Si allontanò, con un passo che contraddiceva del tutto i suoi 84 anni, dal fornello dove cuocevano briosi degli spaghetti e si diresse verso il telefono che, completamente insensibile alle sue faccende culinarie, non smetteva di trillare. Alzò la cornetta. “Pronto!” disse con quel particolare tono di chi si sente a disagio a parlare con un interlocutore senza volto. L’imbarazzo svanì appena sentì la voce dell’operatore di uno di quei call center che ci avvelenano l’esistenza. Ora, di vitale importanza, era trovare il modo, senza essere troppo scortese, di troncare quel flusso di parole impersonali sul nascere, altrimenti… “Guardi, non m’interessa, sono a posto…no, non la faccio parlare perché le ripeto che non ho alcuna intenzione… senta, non mi costringa a essere maleducato… come mi permetto? Mi scusi, sono impegn… ma che vuol dire che anche lei sta lavoran… mica l’ho chiamata io… senta, a queste cose ci pensa mio figlio arrivederci!” Chiusa la comunicazione avvertì il solito malessere, un misto di rabbia e sconforto.
“Gli spaghetti, cazzo!”. Senza neppure spegnere il fuoco afferrò la pentola e la portò sotto l’acqua fredda ma fu tutto inutile: i “vermicelli” avevano oramai l’aspetto di bulimici lombrichi, quindi, invece che nel piatto, li gettò direttamente nel bidone dell’organico che giaceva ai suoi piedi con la “bocca” spalancata, come in attesa.
“Basta!” Sentì una folle energia crescere in lui. Come in un flashback rivide le recenti situazioni in cui si era sentito impotente, a disagio, e constatò che tutte avevano a che fare con la tecnologia, sempre più invadente, spesso deteriore.
Come quando l’operatore della TCM, invece di ridurgli la tariffa, gli fece recapitare un modem di ultimissima generazione, del tutto incompatibile con il vecchio Mac di suo figlio, rara archeologia informatica. Come quando per risolvere un problema amministrativo al telefono, era quasi impazzito seguendo le indicazioni vocali: 1, 2, 5, 9, # e appena dall’altro capo si manifestava una voce pressoché umana, la linea beffardamente cadeva. Come quando, l’altra mattina, mentre passeggiava in bicicletta, una donna alla guida di un suv, che con una mano teneva il volante e con l’altra digitava “funambolescamente” sul cellulare, gli era passata così vicino da consentirgli di percepirne il profumo; per poco non era caduto. Come quando ieri, al bar, mentre stava acquistando un foulard da un simpatico pakistano per regalarlo alla sua giovane nipote, era stato“ripreso” da un individuo con il telefono puntato come una colt 45, che minacciava di denunciarlo alle autorità.
“Basta!” – Ridisse a voce alta – “Il tempo stringe più di una zuppa di carote, e se si possono ingannare gli anni anagrafici, quelli biologici li freghi meno”.
Si mise al tavolo, prese carta e penna e scrisse un piano d’azione: “Piano di resistenza e ribellione dell’anziano con le balle piene contro la teo-tecnologia”. Forse un po’ troppo lungo, pensò.
Una strana luce filtrò dalla sottile fessura tra le palpebre.
1° punto: Riunire tutti gli amici con il cervello non ancora in pappa (per anni aveva lavorato in biblioteca e di esperti di Noir, Gialli e gradazioni varie ne conosceva diversi)
2°: Contattare Occhiolungo e Martello, poliziotto e detenuto in pensione, amici inseparabili e gran lettori, per individuare sedi ed operatori di call center ma soprattutto quei gran figli di una prostata ingrossata dei loro “motivatori”. “Se avete il cuore troppo tenero questo lavoro non fa per voi perché dovete essere aggressivi” dicevano queste m…
3°: Passare all’azione: brevi sequestri dei soggetti succitati; ideale a tale scopo il casolare di quell’eremita di “Alce Nero” (soprannome dovuto non alle sue presunte origini indiane ma al ruolo di capro espiatorio perennemente incazzato che aveva a lungo sostenuto nell’azienda pubblica in cui aveva lavorato per 40 anni). Da anni viveva a Monte Sgrippone, località segnalata solo sulle cartine del CAI di fine ‘800; certamente avrebbe contribuito alla causa con grande piacere.
4°: Nella stanza di “recupero”, del tutto simile a un monolocale, installare numerosi telefoni pronti a squillare ogni volta che il soggetto si accinge a pranzare, dormire o a espletare le proprie funzioni fisiologiche. Una volta alzata la cornetta, una voce registrata ripete in maniera ossessiva assurde proposte commerciali. Es: “È a posto con il gas? Possiamo installarle gratuitamente una centralina direttamente nel wc; ogni sua flatulenza sarà trasformata in energia completamente ecologica” E così via fino alla ritrovata consapevolezza del paziente.
5°: Trattamento similare per alcuni esemplari di virtual men con il pollice in continuo movimento e il capo chino sopra il rettangolo luminoso; perennemente connessi ma completamente scollegati dalla realtà. Dopo un periodo di disintossicazione, saranno sottoposti a un graduale reinserimento nel mondo reale fino al completo recupero dei sensi: caldo, freddo, paura, ansia, ma anche gioia: Dopo qualche giorno di rieducazione i soggetti riusciranno persino a godersi un tramonto, e una folata di vento sul viso parrà un’esperienza indimenticabile.
Innocenzo depose la biro e rilesse quello che aveva appena scritto: “Solo 5 punti e quasi impossibili da realizzare, pura follia”, pensò scoraggiato.
Non c’era più Costanza a risollevargli il morale e ora neppure la sua fervida immaginazione era sufficiente a scrollargli di dosso quell’inquietudine… Mah, meglio lasci…
Drinnn!
Alzò distrattamente la cornetta del telefono: “Pronto?”
“Salve sono Gaglioffo, di nome non di fatto.” Breve risata dell’individuo. “Mi scusi, le posso chiedere che acqua beve, quella del rubinetto o si serve al supermercato… mi perdoni, quale marca? Scusi l’invadenza ma ci sarebbe un nostro agente che proprio nei prossimi…”
“Certo la cosa mi interessa eccome!” Lo interruppe Innocenzo con ritrovata energia. “Mi dica pure quando, lo aspetterò a braccia aperte”.
Una strana luce filtrò dalla sottile fessura tra le palpebre.


mercoledì 25 maggio 2011

questo è il racconto con cui ho partecipato



DISEREDATI

Manuel schivò il barbone all’angolo di via Marconi e svoltò per via Indipendenza. Non guardò i fighetti davanti al bar e le ragazze in minigonna con gli stivali a mezzacoscia, non guardò nulla e s’infilò nel portone del numero tre. Quell’idiota di Francesco lasciava sempre aperto, doveva dirglielo di usare più cautela.

Sebbene nella sua mente volteggiassero ben altri pensieri, pignolo com'era, questa tipica disattenzione di F. gli procurò un lieve fastidio. "eppure dovrebbe aver capito come si chiude questo cazzo di porta" se non la si accompagnava fino in fondo e non si faceva una lieve pressione quella rimbalzava e si riapriva. Ma F. era così e a certe cose proprio non faceva caso. La sua mente era in continuo movimento ed elaborava progetti con una facilità ed una determinazione davvero sorprendenti; non poteva certo sprecare il suo prezioso tempo preoccupandosi di vecchi e difettosi portoni. Manuel liberò un sorriso. Lo immaginò mentre sbatteva dietro di se il vecchio portale e con grandi falcate si divorava la rampa di scala prima che questi sbattesse contro lo stipite, oramai aureolato da innumerevoli piccole crepe impresse nel muro
"Già, poi chi lo sente il proprietario" disse M. a voce alta
"Ogni volta che viene per l'affitto scansiona tutto l'edificio per scovare qualche magagna, sembra uno della "scientifica”
Mentre questi pensieri sonori fuoriuscivano in libertà giunse davanti all’ingresso del loro piccolo bilocale e dopo aver raddrizzato con un piede lo zerbino entrò. Gettò rumorosamente le chiavi nel cestello per attirare l'attenzione di F. ma lui non sentì. Era in piedi davanti ai fornelli, con le cuffie alle orecchie, intento a preparare uno dei suoi soliti piatti esotici. M. non poté fare a meno di notare la sua invidiabile prestanza fisica dato che, sia che fosse estate o inverno, in casa se ne stava torso nudo. "Altro che regia, l'attore dovresti fare, con quel fisico" lo sfotteva sapendo di farlo irritare. F. detestava persino farsi fotografare. Gli si avvicinò e con aria di finta riprovazione alzò la voce "allora idiota, l'hai lasciata aperta anche stavolta" il tono era così alto che questa volta F. nonostante il volume della musica non poté non sentire; fece scivolare con la mano libera la cuffia senza fili che continuò a gracidare all'altezza del collo e girando la testa rispose sorridendo "ah, sei tu pendejo, cos’hai da sbraitare come un cervo in amore?" Insultarsi amorevolmente era per loro un vero divertimento. "se ci fregano un’altra bici poi come ci muoviamo in questa cavolo di città?” rispose M. Queste parole lo riportarono bruscamente alla realtà e l’accenno di sorriso che aveva fino ad un istante prima scomparve del tutto. F. intuendo il perché di quel cambiamento umorale domandò a sua volta “allora com’è andato l'incontro?” M. si limitò a scrollare le spalle e si girò verso la finestra “ma cosa ti aspettavi” continuò F. “pensavi davvero che le cose potessero andare diversamente? Non credo, visto che hai accettato quel lavoro in quella scuola ad Istanbul ”
“Sì, sì, hai ragione Francesco ma è che questa volta avevo sperato in qualcosa di più delle solite parole vuote di circostanza" e con voce nasale imitando la voce del responsabile delle attività culturali “lei è un bravissimo musicista, la teniamo d'occhio, è il primo della lista, abbiamo per lei dei progetti ma deve avere pazienza, sa i tagli alla cultura, la crisi…” “ma vaffan…” Sul fuoco intanto il sugo sfrigolava. F. si girò e aggiunse un goccio d’acqua tiepida all’intingolo “pazienza” riprese M. “ma se è un anno che ci siamo trasferiti nella capitale dietro false lusinghe e consigli di quella specie di agente che finge di darsi da fare…se cercate delle opportunità dovete venire a Roma, è qua che si muove e nasce tutto…ma vaf… anche all'agente” F. intanto mise un panno sopra la pentola del riso. “Ma sì, meglio così siamo giovani no, ne abbiamo di tempo” continuò M. quasi dovesse convincersene “avrei dovuto darti retta e prenotare quei voli un mese fa quando il prezzo era conveniente, acc…”
“vieni qua un attimo” lo interruppe F. porgendogli il cucchiaio di legno “attento che non si attacchi” e sparì in camera.
Ritornò un istante dopo con il computer “guarda coglione”
Sul portatile erano visibili due prenotazioni aeree per la città sul bosforo…di sola andata…partenza fra due giorni
F. come al solito aveva giocato d’anticipo.
M. spalancò la bocca ma non ne uscì alcun suono.
Cosa avrebbe potuto dire d’altra parte? Ci avevano provato. Erano arrivati dalla provincia certo con qualche aspettativa ma illusioni no, quelle no.
Da tempo avevano capito che il loro paese li aveva abbandonati come cani in autostrada, così come avevano capito che non rientravano nei progetti di una classe dirigente gretta, ignorante e violenta che faceva finta che loro non esistessero, derubandoli così del futuro. E già! la madre patria si era rivelata una genitrice alquanto snaturata. Certo il tempo giocava a loro favore ma fino a quando? Intanto la vita scorreva via veloce, troppo veloce per rischiare di sprecarne anche una sola goccia, amara o dolce che fosse.
Da tempo avevano rimosso gli steccati mentali che portano gli uomini a circoscrivere un luogo rispetto ad un altro; ora si trattava solo di mettere in pratica quello che avevano sempre desiderato: muoversi nel mondo
Qualcuno sicuramente avrebbe definito la loro semplicemente una fuga ma si è mai chiesto quel qualcuno di quanto coraggio serva per fuggire?
“Tutto bene Manuel?” chiese improvvisamente F.
Il tono asciutto sincero della sua voce riportò M. alla realtà e il tempo che per alcuni istanti pareva come sospeso riprese il suo corso
“ in fondo era quello che volevi, no? Continuò appoggiando il computer sul tavolo “essere utile a qualcuno. Beh! Ad Istanbul ci sono decine di giovani studenti che ti aspettano ed io mi arrangerò, il materiale da filmare non credo mancherà”
I due, ora si trovavano uno di fronte all’altro. Si guardavano in silenzio e sorridevano. Una strana euforia li stava pervadendo.
Manuel guardava negli occhi del suo giovane fratello e ne condivideva la lucentezza. Vi si rispecchiava. Erano occhi grandi, profondi, belli come lo sono gli occhi di chi ancora sa sognare, di chi ancora non ha smesso di farlo

“E spegni quel fornello cabròn, non vedi che è pronto?!”