lunedì 29 settembre 2008

una splendida giornata



Questa mattina ero solo e la giornata era splendida. Non era splendida perché ero solo, era splendida perché ogni tanto le giornate decidono di esserlo. Fabio registrava un pezzo al computer , Luca smaltiva i postumi della domenica seduto in un aula del liceo e Cinzia si baloccava con una decina di marmocchi nel nido in cui si guadagna la pagnotta... e io, dopo un buon caffè da Sauro, sono andato a fare due passi sulla spiaggia oramai liberata da tutte quelle creature dalla pelle cangiante chiamate volgarmente turisti. Il mare era lucidato a nuovo e l'aria salmastra si insinuava fredda nei polmoni, solleticandomi le narici. Camminavo sulla battigia e delle piccole onde accarezzavano i miei passi. La mia, comunque non era una passeggiata senza scopo... avevo deciso di cercare un legno, uno di quei tronchi abbandonati dal mare e poi gettati a casaccio sulla riva, per portarlo a quel fetente del mio gatto che a forza di farsi lo "zampicure" sulle poltrone di casa, aveva già distrutto la poang targata ikea e da qualche giorno si stava dedicando con grande solerzia al ben più pregiato trepposti molteni... perciò prima di avere la tentazione di regalarlo - il felino non il divano - a qualche vicentino di antiche abitudini culinarie, dovevo trovare qualcosa che sostituisse gran parte dell'arredo di casa, sperando fosse di suo gradimento. Dopo aver percorso un paio di chilometri sono tornato indietro con un paio di trofei. Uno pareva una murena lunga ottanta cm circa e l'altro una sorta di mandibola lignea. Giunto a casa, dopo averli puliti li ho stesi sul terrazzo ad asciugare al sole. Ciccio, che non sopporta gli intrusi, vi si è avvicinato con fare piuttosto guardingo (si stava cagando sotto) con l'arco della schiena piuttosto pronunciato e una coda gonfia come un piumino da spolvero, ha annusato e poi se n'è andato per nulla entusiasta. Sono convinto che domani andrà meglio e riuscirà a stabilire un contatto con le presenze aliene. Glielo auguro. Intanto ho memorizzato nella rubrica del telefono il numero della trattoria " L'oca bianca" di Vicenza... non si sa mai!

p.s. le cose trasportate dal mare e depositate sulla battigia, qui dalle mie parti vengono raggruppate in un unico nome "almadira". Bel nome esotico vero?
Il primo gruppo musicale di fabio si chiamava proprio così. La loro musica era
impregnata di molteplici sonorità, arabe, greche, irlandesi... a loro piaceva pensare che tutti quei suoni fossero giunti a loro trasportati dal mare.

stefano



giovedì 25 settembre 2008

Da non perdere!!!

mi scuso per la poca tempestività ma più che di cafonaggine credo si tratti di rincoglionimento precoce... segnalo perciò, in netto ritardo, che sul blog di Enrico Gregori c'è un bel racconto "cattivello" del nostra gentilissima morena fanti

stefano (ex galantuomo!)



venerdì 19 settembre 2008

Per un concorso



Premessa: in questi ultimi mesi ho partecipato a diversi "giochi" letterari sul web, con brevi racconti; c'è una cosa che accomuna quasi tutti questi concorsi ed è la richiesta che vengano prodotti testi con un determinato numero di battute, di caratteri, tassativamente da non superare.
Anni fa, stimolato da un regolamento simile trovato su un quotidiano nazionale, scrissi questo breve racconto che poco fa ho ritrovato. Niente di eccezionale ma abbastanza simpatico, sempre che simpatico, per un racconto, possa considerarsi un complimento.




Bene, il foglio ce l’ho, la penna anche, posso cominciare. Il regolamento parla chiaro: non più di 50 battute per riga, non più di venti righe…Beh, visto che vogliamo giocare duro, facciamo che il tutto si debba svolgere in non più di mezz’ora, giuro che non imbroglio. Pronti, Via!
Ora focalizziamo l’argomento, che sarà, vediamo un po’, sarà….. Ecco, ho trovato: la vicenda si svolge in treno, sempre di gran fascino il treno, poi ci vuole una donna, immancabile in ogni storia che si rispetti Sta leggendo, nello scompartimento è sola, leggermente distesa sul sedile accanto al finestrino, un cappello color panna, a larga tesa, giace al suo fianco, il collant all’altezza della caviglia sinistra è leggermente smagliato e lascia intravedere una piccolissima… Accidenti, mi perdo sempre in inutili dettagli… certo se almeno avessi avuto una trama da seguire, una traccia, anche minima, prima di attivare il cronometro; ma oramai è troppo tardi ed è inutile recriminare, non posso più tirarmi indietro, l’ho giurato! Vediamo, sono già trascorsi 10 minuti. Accidenti! Il tempo, come sempre sa essere impietoso, in ogni circostanza, ma non è il caso di perdersi d’animo nella carrozza, dove è seduta, ignara, la nostra protagonista, sale un uomo, anche lui indossa un cappello; si guarda attorno nervosamente e sale furtivamente ma alquanto lestamente (pessimo passaggio, lo modificherò in seguito) Cinque minuti ancora, la faccenda si complica, comincio a preoccuparmi, e poi, le battute sono poche, le ho contate Si incammina nel corridoio, ogni tanto si volta; la valigia che ha in mano è piuttosto ingombrante e pesante e gli impedisce di muoversi come vorrebbe. Mentre passa getta lo sguardo all’interno di ogni compartimento, come se cercasse qualcuno, sembra preoccupato... Certo che questi organizzatori di concorsi letterari sono davvero incredibili; sembra che per loro la difficoltà dello scrivere non conti nulla, lo sforzo creativo che il più delle volte stenta a sfociare in qualcosa di originale, l’utilizzo corretto del linguaggio, la ricerca delle parole, la punteggiatura, no, questo per loro non è sufficiente e allora ti piazzano lì dei bei vincoli, paletti li chiamano: righe, battute, parole, caratteri... questi non sono semplici paletti, che diamine! Diciamo piuttosto che sono travi messe di traverso per renderti la vita difficile!
No, non è possibile, sto qui ad elucubrare e intanto le lancette dell’orologio corrono e mi restano poco più di due minuti … Non importa, ce la farò ugualmente! Allora, dove ero rimasto? Ah! sì, ecco Improvvisamente si ferma davanti alla cabina dove siede la donna che non si è accorta di nulla e continua a leggere il suo romanzo. Ogni tanto gli occhi tentano di chiudersi, costringendola a ritornare sulle frasi appena scorse, ma un lieve colpo di tosse del nostro individuo la fa uscire dal suo torpore costringendola a volgere la testa verso di lui che con un abbozzo di sorriso sulle labbra le dice: “Sono duemila, signora, gliela lascio qui nel corridoio, è così pesante!” Tempo scaduto.

stefano








martedì 16 settembre 2008

Promemoria per chi(uomini e donne)non fugge mai

mentre ero assente sono arrivate nuove "fughe"... qualcuno se n'è forse accorto?
siamo già a nove, chi sarà il decimo?
questi, finora gli amici narratori: annalisa, didò, gea, lanoisette, southwest, mario, morena fanti, alivento, e naturalmente il sottoscritto...

ciao
stefano




letteriadi 2008/promemoria


Sul blog di Laura e Lory continuano le letteriadi 2008
qi sotto l'incipit:
"Degli altri quattro sensi non c'era traccia. Tutto ciò che riuscivo a sentire era uno stucchevole sapore di glassa alla fragola..."
Ci sono già state le prime eliminazioni ma la "gara" continua fino al 15 ottobre
p.s.i racconti (max 5000 battute) vanno spediti a falconeloredana@libero.it entro il 15 ottobre
ciao
ste


giovedì 11 settembre 2008

i racconti del castello



sul blog VDBD, nel mese di agosto c'è stato un gioco letterario a cui ho partecipato, dal titolo "al castello di Dunnottar"...se vi interessa c'è la possibilità di leggere tutti i racconti sul sito di morena fanti oppure di scaricare il pdf o acquistare il libro.
il mio è qua sotto:



Dalla piccola stazione di Stonehaven, tra la nebbia e i richiami dei gabbiani, percorremmo tre miglia a piedi, lungo un viottolo sterrato, stretto e scivoloso. Tra rocce, grotte e rupi scoscese che precipitano a picco sul mare del Nord, arrivammo finalmente al Castello di Dunnottar.

L’escursione si era rivelata davvero difficoltosa. Pensare che Cinthia e io, di camminate ne avevamo fatte, in questi anni. Forse l’umidità, la nebbia, che per fortuna ora si stava diradando e le rocce così frastagliate avevano contribuito a renderla maggiormente ardua.
Giunti in cima però la fatica lasciava posto allo stupore per la bellezza che ci circondava.
In lontananza, oltre il vecchio castello che ora si ergeva davanti a noi con tutto il suo carico di storia e di mistero, la suggestiva visione di un mare d’ardesia si fondeva con il grigio del cielo.
“ E’ stata durissima, ma ne è valsa la pena, non trovi cara?”
“ Beh! se non fosse per questa umidità che toglie il respiro, direi proprio di sì … non riesco però a capire come sia venuta a Marta l’idea di portarci fin quassù, proprio lei che detesta camminare, e poi quanto ha insistito !?…

Il motivo di questa nostra gita l’avevo intuito da tempo e lo trovavo, sì bizzarro ma tipico di Marta.
Marta era “il mio principale”, un vero mastino e ultimamente si era presa una cotta adolescenziale per me. Naturalmente fingevo di non rendermene conto per evitare di essere scortese e di cacciarmi in una situazione alquanto sgradevole. Tutti ne erano a conoscenza in azienda, tutti tranne Cinthia, fortunatamente. Non è il tipo, Cinthia da accettare certe cose.
In un primo momento, anch’io mi ero stupito per quella strana proposta di vacanza, in quel posto sperduto nel nord della Scozia. Ma dopo essermi documentato, cosa che facevo sempre prima di partire per un viaggio, tutto fu chiaro. Avevo scoperto che una delle leggende popolari attorno al castello di Dunnottar era incentrata sul suo potere magico. Niente vampiri o lupi mannari, no niente di tutto questo. Davanti al castello vi era uno spiazzo naturale una sorta di terrazza a strapiombo sul mare. In fondo allo spiazzo vi era un’appendice rocciosa, come una piccola piattaforma. Chi, in una notte di luna piena, vi fosse salito poteva esaudire un proprio desiderio.
Per questo semplice e assurdo motivo Marta aveva scelto quella meta, nonostante odiasse la montagna e la fatica fisica.
Pensava di riuscire a conquistare il mio cuore servendosi della magia, dato che non vi era riuscita con le normali astuzie della seduzione, le quali spesso consistevano in esplicite minacce di licenziamento. Ma con me si era comportata in maniera diversa. Forse era davvero innamorata.


Aspettammo Marta e raggiungemmo gli altri due membri della spedizione che ci aspettavano 50 metri più in alto.
Questi erano Ugo e la guida locale che egli aveva contattato, giorni prima, affinché ci conducesse al castello. I due parlottavano fra loro come vecchi amici.

Ugo era per così dire il compagno di Marta. Lavorava anche lui in ditta da alcuni anni ma nessuno sapeva con precisione quali fossero le sue mansioni. Provavo per lui un misto di rabbia e tenerezza. Più che l’amante del capo, a me pareva un fedele cagnolino, così servile e sottomesso. Sopportava ogni genere di angheria, di umiliazione, e tutto per stare accanto ad una donna che, era evidente, provava per lui soltanto attrazione fisica.


Giungemmo finalmente davanti al portone d’ingresso del maniero. Era quasi buio. Tutto lasciava presagire una notte luminosa. In lontananza una splendida luna fece la sua apparizione nel cielo color bitume. Tonda come ogni luna piena che si rispetti.
“Appena in tempo” disse Marta con quel poco di energia che le era rimasta.
“Ora possiamo accamparci nel rifugio. Ugo che aspetti, vuoi aprire quella porta?” Sbuffò acida.
Ugo sorrise e strisciò all’interno della baita dove avremmo trascorso la notte. In quell’istante, più che un verme a me parve un serpente.
Passarono circa due ore. Dopo che ci fummo ristorati e riposati, Marta mi si avvicinò e sussurrò: “ Vieni caro, ti voglio mostrare una cosa”.
Lasciammo il resto della compagnia attorno al fuoco a ascoltare le simpatiche storielle che Ugo, abile narratore, stava raccontando. Io che odiavo le barzellette fui ben lieto di uscire fuori dalla capanna.
Marta mi invitò nuovamente a seguirla.
Naturalmente immaginavo quale fosse la meta.
Infatti di lì a poco ci trovammo a ridosso dello strapiombo e Il mio capo salì sulla fatidica sporgenza. Finsi un credibile “ ma che fai cara, sei impazzita, rischi di cadere…” Sotto a 300 metri circa, nel silenzio della notte si udivano le onde infrangersi dolorosamente contro la base del monte.
Lei improvvisamente alzò le braccia verso il cielo. Guardò me e poi la luna e infine gridò:
“Ora tu sarai mio, per sempre”
Fu un lampo. Un attimo prima, la sua bianca figura si stagliava nell’oscurità come la polena di una nave e un istante dopo, il tempo di un battito di ciglia, Marta sparì nel nulla, come inghiottita. Solo un grido. Un suono lancinante che rapidamente sfiorì nelle tenebre fino a scomparire del tutto. Ero come paralizzato quando il resto della combriccola sopraggiunse al mio fianco. Avevano sentito quell’urlo terribile e si erano istintivamente precipitati fuori. Cinthia e la guida si sporsero dalla terrazza quel tanto per capire cosa fosse successo. La roccia sporgente aveva ceduto. Dopo settecento anni.
Ugo mi teneva un braccio sulla spalla. Con uno strano e diabolico sorriso sulle labbra disse, guardando nel buio:
“Anch’io avevo un desiderio da esprimere Marta, il mio è stato esaudito. E il tuo?”


stefano mina






mercoledì 10 settembre 2008

sono tornato!

...anche se ad essere sinceri, non ero mica partito!
comunque eccomi di nuovo nella mia stanza dopo 15 giorni di esilio forzato...beh! un po' di casino, c'è... perciò per prima cosa faccio un po' d'ordine e sistemo subito i racconti di mario, lanoisette, southwest e morena nel posto che compete loro...fra i "fuggitivi" proprio qui sotto. Andate a leggerli se volete e magari commentateli. Naturalmente le " vostre" fughe sono sempre ben accette!
ciao a tutti!




lunedì 25 agosto 2008

elogio alla fuga...le storie/9


storie, racconti, aneddoti...ecc.ecc.



Al ritorno di brevi ma bellissime vacanze toscane presso volterra, ci trovammo, la mia famiglia ed io, all'ora del pasto, in una zona boschiva dell'appennino tosco-romagnolo.
Gli stomaci brontolavano, perciò senza indugi al primo cartello che indicava un posto di ristorazione svoltammo nella direzione indicata: un vecchio castello (completamente rimosso dalla memoria) con annesso ristorante.
Accecati dalla fame entrammo in una sala esterna situata sotto una grande tettoia e scelto il tavolo ci sedemmo senza fiatare.
Di lì a poco arrivò un cameriere con il menù e un cesto di pane che fu immediatamente aggredito ( il cestino) dai miei figli... d'accordo anche da me e da mia moglie.
Masticando un boccone cominciai a sfogliare lentamente il menù:
" Che cosa c'è stefano, perché fai quella faccia?"
La voce di Cinzia giungeva lontana e un pezzo di pane mi si era incagliato in un certo punto dell'esofago...
I prezzi erano spaventosamente alti!
Cominciai a cambiare colore, dal bianco cadavere al rosso tedescoiprimigiornidivilleggiaturaarimininelmesediluglio
e con calma - si fa per dire cominciai a ragionare sul da farsi. I minuti passavano inesorabili. Del cameriere ancora nessuna traccia.
Dopo un breve conciliabolo prendemmo l'unica decisione possibile.
Con non chalance ci alzammo e elegantemente ce la squagliammo.
L'uscita della sala era proprio vicino al corridoio interno al ristorante. In lontananza vidi arrivare il cameriere che si avvicinava sempre di più:
...e uno, fuori Luca, e due, Fabio e tre, Cinzia... quando fu il mio turno mi trovai proprio davanti all'uomo con la camicia bianca. Il suo sguardo - sorpreso - incrociò il mio - accigliato -. Con le sopracciglia inarcate sgranai gli occhi e con il dito indicai l'orologio e dissi con la faccia come il cosiddetto culo : " è mezz'ora che aspettiamo"... e quattro! Fanculo.
Sentì, finalmente, il boccone scivolare giù.
Sembrava fossimo scappati da Alcatraz, tanta era la sensazione di libertà!

stefano mina



seduti in un caffè in galleria a Milano, in cinque, dalla campagna alla città. Avevo provato a dissuadere, esperta della tentacolare metropoli, ma nessuno mi aveva dato ascolto. Il cameriere porta la lista e ci lascia il tempo di ordinare. Apriamo, allungo la lista al marito e sottolineo col dito: caffè, seimila lire.
Ci siamo alzati all'unisono, che sembravamo quelli del nuoto sincronizzato, e ci siamo dati alla fuga.

annalisa


Era il ’92, Mario era una lieve sardina che sguazzava nel carrozzino; Chiara, la peinteur che svolazza per l’ Indrè de France, era un rotondo palloncino di nove anni.
Quella mattina d’agosto si decise: gita in montagna. Napoli non ha montagne, si va’ al Taburno; il Matese è troppo lontano, faticoso per i bambini, il Taburno, la più brutta montagna del globo terraqueo, con poca vegetazione e senza corsi d’acqua, una specie d’Afghanistan campano... (continua)
-"Francè, gli zii mi hanno detto che questo monte è fantastico, ma portatevi una tanica d'acqua..."
Mia moglie, una ruvida tigre, a mezzo tra la regina Vittoria e Sabrina Ferilli (burbera come sua maestà, ma con le tette come la Ferilli: l'avrò sposata per amore?).
La Panda Fiat 750 aveva 4 marce, ma non servirono, ogni tanto se inforcavi la 3° era meglio non lasciare la frizione, lo facevi con affetto, era la 2°, la marcia nuziale di quella mulattiera! Fu bello stare li, perchè guardavi le altre montagne, il bellissimo Matese e l'inizio degli appennini, lui, il Taburno mesozoico, era meglio non rasentarlo con lo sguardo, un velo di tristezza da ritirata di Russia lo copriva ed un freddo terrifico lo spazzava (a valle avevamo lasciato 39, allegri, gradi). All'una del pomeriggio la tigre branì (Cerva?):"I bambini hanno fame:trova un ristorante!"
Alle 2, mentre Chiara, travolta dalla fame, cantava a squarciagola "...due elefanti, si arrampicavano sul filo di una ragnatela...", io mi arrampicavo tra tornanti e andanti (nel senso che spesso tornavo indietro dopo essermi perso)senza trovare neanche un rustico con una caciotta.
La madre di tutte le madri, la leonessa che vede i bambini deperire, mentre quel pirla del leone si crogiola al sole, mi colpì più volte sul sopracciglio con un'ombrello ("dove cazzo hai trovato un ombrello ad agosto?" - "era per proteggere i bambini dal sole, ora mi serve per proteggerli dalla tua inettitudine!").
Eccolo! Bar-Ristorante da Alfredo: entriamo? C'era da dirlo? Entrammo!
La sala con una decina di tavoli, dipinta di bianco-cielogrigio-quando-vorrebbe-piovere. I tavoli di fòrmica marron, alle pareti una vecchia foto di Papa Giovanni e quella di un cinghiale, pensai: dev'essere un posticino coi fiocchi, rustico e casereccio (lo ammetto, fui fottuto dalla foto col cinghiale, non mi resi conto che i cinghiali raramente si fanno fotografare seduti: dopo ripensandoci, intuìi che era un dagherrò del capostipite).
Un quarto d'ora dopo, quando Chiara aveva spelacchiato un cesto di margherite, spargendole sul pavimento, arrivò Attila.
Si abbottonava la giacca bianca velocemente, sbagliando le asole e inciampando su di una vecchia scopa si abbattè quasi sul tavolo e melifluamente chiese:"Preco?" (con la C)
"Che c'è da mangiare?"
Posizionò tre dita al centro del cranio e grattando della forfora che si staccava miracolosamente dai capelli stuccati di una odorosa Brillantina Linetti rispose: "Qualsiasi cosa!"
Come "qualsiasi cosa", diceva Tonia, mentre lui andò via per imbandire, questi non hanno neanche un menù?
"Dai, ci faranno cose genuine, preparate al momento!"
Attila tornò. Imbandì con un pezzo di sottocarta bianca da parati la tavola, poi la catarsi. Dopo essersi grattugiato la punta del naso prese un mazzo di posate da un cassetto, reggendole dalla parte dell'imboccatura e le posò a tavola. Tonia impugnò l'ombrello (spuntava da tutte le parti), io tremavo, con classe. Poi, il cameriere fece l'ultima, ficcò le mani in tre bicchieroni di vetrone infrangibile (le unghie nere di lutto toccavano il fondo opaco di calcare)e li posizionò a tavola.
L'urlo di Tonia squarciò la pace funerea del monte: "E basta! Via, via!"
"Chi io?" latrò il cane impomatato travestito da servo.
"No, noi!"
E trascinandoci come masserizie di un accampamento Rom, invaso dai naziskin, Tonia ci indusse ad uscire fuori, mentre il domestico quasi scappava in cucina.
Fu tutto un fuggi-fuggi.
Arrivai a valle con uno strano fumo che usciva dal cofano (freni) e con l'ombrello puntato nel fegato.
Poi trovammo un fast-food che stava quasi chiudendo e fummo felici (non ricordo se la notte facemmo l'amore, c'era un ombrello nel letto).

francesco di domenico


anno 1976.
il contesto è confuso: politica sesso droga e rock & roll.
notti passate a girare con gente improbabile per bettole e case-comune-accampamento.
sperimentazioni chimiche le più varie. praticamente tutto quello che si trovava veniva provato. così, perchè tanto chissenefrega. e qualunque cosa è meglio della realtà.
una sera di tarda estate, alla ricerca di fumo con un paio di amici, finiamo in un quartiere periferico abbastanza malfamato, in un appartamento condiviso da uno che conoscevamo ed altri. tutti pusher, praticamente una cooperativa.
solito rituale, acquisto e assaggio offerto dal dealer che si offende da morire se non accetti (anche gli spacciatori hanno un'anima).
poi uno dei conviventi tira fuori una bustina, un cucchiaino, un limone e una siringa. io. che ero già piuttosto fatta, rimango stranita a guardare il rituale. lui prepara, si sfila la cinta dai pantaloni, se la stringe coi denti intorno al braccio e si spara mezza pera. sfila l'ago e fa: volete?
silenzio.
io raccatto le forze, mi alzo e dico: scusate ho un impegno.
giro sui tacchi e via.
sola, nel mezzo del nulla, appiedata.
sono arrivata a casa tre ore dopo.

sono molto felice di essere scappata.
scappata a quella che conoscendomi sarebbe stata la mia fine.
perchè l'eroina l'avevo sniffata, un paio di volte.
e mi era piaciuta da morire.

gea


La mia fuga, poco più di un anno fa.
È arrivato con le valigie a casa mia sei settimane dopo il nostro primo appuntamento, battendo sul filo di lana il traguardo dei miei primi trent'anni. E sono cominciate le montagne russe: sei mesi di felicità folle e di abissi terribili, in cui scoprivo sempre più quanto fossimo diversi, quanto quell'uomo che mi faceva sentire amata, unica e indispensabile mi stesse stringendo intorno lacci sempre più stretti e soffocanti. Niente più amiche, niente più cinema, niente più montagna o vela: solo lui ed io, una monade di passione e possessività insensata. Adorata come una dea ma costretta a rinchiudermi nella gabbia dorata della perfetta femmena 'e casa. La sensazione che mi mancasse l'aria. Il tarlo, sempre più profondo, che la rinuncia a me stessa non servisse a far funzionare gli ingranaggi di quel meccanismo meraviglioso e infernale in cui lui chiedeva sempre di più e io mi sentivo svuotare. Tutte le mie energie per lui, energie che non bastavano mai.
Finché un giorno, dopo l'ennesima, furibonda litigata, ho detto la più banale delle frasi: “Torno dai miei”. Quando ho chiuso la porta alle mie spalle, non sapevo se sentissi più intensamente la perdita o la liberazione.
Poche settimane dopo avevo in una mano il timone e nell'altra la scotta di randa e solo mare e vento intorno a me.

lanoisette




Mio padre me lo ripeteva ogni volta:
“Qualsiasi cosa accada, non si scappa. La si affronta”
E io, tutte le volte, assentivo. Con grande serietà.
Era un uomo con delle convinzioni, e cercava di instillarle anche a me.
Però era anche piuttosto severo.
E se avesse saputo di quella nota sul diario, datami in circostanze piuttosto controverse dalla professoressa di italiano, avrei sicuramente passato un brutto quarto d’ora.
Dovete considerare che:
primo avevo 13 anni, quindi ero ancora passibile di punizioni corporali;
secondo era il 1975, epoca nella quale il Telefono Azzurro era ancora molto lontano dalla sua nascita.
Così presi la decisione di non dirgli niente, e di tentare di contraffare la firma di mio padre sotto alla maledetta nota.
Ad operazione conclusa, le due firme si assomigliavano come un gatto può assomigliare ad una portaerei.
Non avrei mai ingannato nessuno, e allora si che sarebbero stati dolori.
Fu mentre paventavo punizioni a base di frustate, ferri roventi e vergini di Norimberga, che come un cospiratore si palesò alle mie spalle uno dei miei migliori amici di allora.
“forse un modo di sfangarla c’è…” disse scuotendo una sigaretta immaginaria
“magari” risposi io con voce d’oltretomba. Poi, speranzoso “e sarebbe?”
“È semplice: tu devi semplicemente mangiare l’appuntatura di una matita: questo ti provocherà un tale mal di pancia che dovranno mandarti a casa… “
“Ma sei sicuro?”
“l’ho letto… “
Ero un ragazzino ingenuo, e poi che avevo da perdere? Appuntai un lapis per abbondanti 5 centimetri e buttai giù tutto il legno e tutta la grafite ottenuta. Poi mi misi in speranzosa attesa.
Non dovetti attendere molto: sarà stato il nervoso, sarà stato l’effetto placebo, ma di lì a poco nelle mie viscere si scatenò l’inferno. Era come se qualcuno mi strizzasse lo stomaco e cercasse di legarlo alla parte più nascosta dell’intestino con del filo spinato. Rovente.
Arrivò l’ora di Italiano. La professoressa fece l’appello e attaccò a spiegare. Nel mio intestino intanto si era scatenata una battaglia a colpi di piccone. A quel punto non ce la feci più: alzai la mano e mormorai “professoressa, non mi sento be…”
Il “ne” finale si sparse sul pavimento, insieme alla colazione, ad abbondanti succhi gastrici e a buona parte della cena della sera prima, che evidentemente il nervoso non mi aveva permesso di digerire, fra le urla di raccapriccio della maggioranza della classe, e il ghigno mefistofelico del mio amico.
Fu un tredicenne bianco come un nevaio quello che i miei genitori si videro riconsegnare da una bidella piuttosto schifata qualche decina di minuti dopo.
Ma della nota sul diario, da quel giorno, nessuno parlò più.

southwest



- Ma tu vesti sempre così classico?

G. aveva passato il palmo della mano sui miei pantaloni, all'altezza della coscia ed io non riuscii a trattenere un fremito, abortito tentativo di scostarmi. Per eccesso di cortesia (o di laico rispetto umano) rimasi al mio posto, abbozzando pure un mezzo sorriso, mentre rispondevo

- No, di solito preferisco i jeans, ma in questi giorni lavoro presso un cliente...

E giù a raccontare dettagli del mio lavoro che non fregavano a nessuno. L'importante era non far rimanere male G. E dissuaderlo da nuovi tentativi di contatto.
L'avevo conosciuto quando viaggiavo sulla linea ferroviaria Genova-Milano e prendevo l'intercity della 10,08.
A quell'ora non c'era molta gente che saliva sul treno, non era certo un problema trovare posto. Tuttavia usavo posizionarmi sul binario all'altezza delle carrozze di coda, per sfruttare la distribuzione gaussiana dei passeggeri e trovare spesso l'intero scompartimento libero, un'oasi di solitudine e silenzio prima del caotico CED che mi attendeva a Milano.
Due o tre giorni la settimana G. prendeva quel treno, aspettandolo nello stesso segmento di banchina su cui attendevo io.
Era un uomo sulla cinquantina, magro, non molto alto, il viso scavato, gli occhi che parevano febbricitanti. A parte un marsupio, non portava niente con sé. Per qualche tempo non ci furono contatti, al di dà di una rapida occhiata, un "riconoscersi". Arrivava il treno e ognuno di noi andava ad occupare uno scompartimento diverso.
Un giorno di particolare affollamento si sedette di fronte a me. Io leggevo, lui pareva contemplare una di quelle brutte stampe affisse sotto il ripiano dei bagagli. Al momento di scendere mi parve educato rivolgergli un saluto, a cui rispose a bassa voce.
Due giorni dopo lo ritrovai e, questa volta, scelse deliberatamente di sedersi nel mio scompartimento.
In genere sui treni leggo, ma se percepisco che qualche compagno di viaggio preferirebbe far due chiacchiere mi presto volentieri. Mi piace ascoltare gli altri, spesso mi fa sentire bene lo scambio di battute con viaggiatori sconosciuti.
Mi parve che G. avrebbe gradito un po' di conversazione ma che fosse troppo timido per iniziare. Così buttai lì qualche osservazione a carattere generale (non ricordo a proposito di cosa). Lui rispondeva a bassa voce e frasi brevi, con una voce vagamente nasale.
Ci presentammo, io raccontai brevemente del mio lavoro (lui non mi disse niente del suo), scoprii che G. passava spesso in bicicletta dal mio paese (a dire il vero, non ricordavo di averlo mai visto, e mai lo vidi dopo), che viveva da solo in un appartamento.
Alla ricerca di argomenti di conversazione più interessanti del tempo e del traffico, gli parlai di libri, di musica, persino, con cautela, di politica, ma pareva non gli interessasse nulla.
Alla stazione successiva entrò una persona e il nostro dialogo rapidamente terminò. Io ripresi a leggere, lui a concentrarsi sulla
stampa.
Contrariamente alle aspettative, lo trovai lungo il binario anche il giorno dopo. Mi salutò con una certa vivacità e, neanche a dirlo, si sedette di fianco a me, a mia volta posizionato accanto al finestrino.
Eravamo partiti da pochi minuti quando si allungò per tirare le tende. Ad un mio sguardo interrogativo rispose che la troppa luce gli dava fastidio. La cosa mi irritò, avevo tirato fuori un blocco note con appunti per un lavoro ed ero intenzionato a preparare alcuni schemi. E poi, la conversazione di G. non era granché. Comunque, feci finta di niente ed iniziai a scarabocchiare qualche grafico.
Poco prima di raggiungere la stazione successiva si alzò e tirò pure le tende della porta d'ingresso. Senza esserne richiesto, mi disse che così avremmo dissuaso i passeggeri che sarebbero saliti di lì a
poco ad entrare. Prima che potessi ribattere, si risedette ed iniziò a raccontarmi del suo giro in bicicletta del giorno prima, di come fosse ancora una volta passato per il mio paese.
Fu proprio mentre rispondevo con frasi di circostanza, seccato per
questo oscuramento imposto, che mi sfiorò la gamba, chiedendomi delle
mie preferenze in fatto di abbigliamento.

- Ma tu vesti sempre così classico?

- No, di solito preferisco i jeans, ma in questi giorni lavoro presso un cliente e mi è stato insistentemente suggerito di vestirmi come si deve.

- Ah, capisco. Sai, a me piace stare comodo. Per esempio, non ci crederai, ma mi trovo bene con mutande tipo perizoma. Le conosci?

- Credevo fossero tipicamente femminili
(ma di che va cianciando, questo?)

- No, no, ci sono anche da uomo. Sono comodissime, sai?

- Certo, certo...
(me lo immagino...)

Un po' imbarazzato, finsi di cercare qualcosa fra i miei appunti, nonostante la penombra. Lui non si diede per vinto.

- E a casa mi piace stare completamente nudo, avvolto in un accappatoio...

- Eh...
(che cazzo sta dicendo?)

- Ma... hai un orologio fantastico!

E mi prese più o meno delicatamente il polso desto (benché non sia mancino, ho sempre portato l'orologio a destra).
A questo punto avevo capito le intenzioni di G., ma la dannata cortesia mi tratteneva dal fare gesti bruschi per divincolarmi.

- Sì, me l'ha regalato la mia FIDANZATA

e intanto gli scostai la mano. Seguirono un paio di minuti imbarazzati. Nel frattempo il treno fece una fermata. Mi decisi in un attimo:

- Io scendo qui, oggi devo incontrare un consulente per quel
lavoro... be', insomma, buona giornata e alla prossima! Ciao!
Non ricordo se mi rispose. Scesi veramente dal treno e aspettai il
successivo, un'ora e mezza dopo, arrivando in ritardo.
Dopo quel giorno inizai ad aspettare il treno nella zona dei vagoni di testa. Le poche volte che incrociai ancora G. feci finta di non vederlo. Poche settimane dopo cambiai orari e non mi capitò mai più di incontrarlo. Di certo, non in bicicletta al mio paese.

mario



Fuga alla ricotta

Calabria, 1978

Eravamo in vacanza a Tropea quando ancora non si sapeva delle omonime cipolle. Le mangiammo là e le trovammo dolcissime, sorprendendoci. Qualche anno dopo le avremmo conosciute come "cipolle di Tropea". Ma questo non c'entra nulla con la mia storia.
Allora, eravamo in Calabria ed eravamo in sei: tre coppie di amici.
Mare, sole e relax.
Un giorno, causa il troppo sole preso e la pelle arrossata, decidemmo di prenderci una pausa dal mare e di esplorare l'interno. Partimmo in auto e facemmo un bel giro. Ad un certo punto (la fame iniziava a mordere lo stomaco) decidemmo di fermarci a comprare qualcosa per un picnic improvvisato.
C'era un negozietto sul lato della strada e ci sembrò ben fornito. Entrammo e lo trovammo, infatti, zeppo di cose buone. Comprammo di tutto: salame piccante, pane in quantità industriale, provola e altri formaggi, piccanti e non, stuzzichini, e infine la signora ci portò fuori e ci mostrò delle ricottine appena arrivate, freschissime, dentro deliziosi canestrini di giunco foderati da foglie verdi. Inutile dire che aggiungemmo anche le ricottine alla nostra gigantesca spesa. Gli uomini si accollarono il peso delle buste (che noi a Bologna chiamiamo 'sportine') e noi ragazze (beh, all'epoca lo ero davvero, una ragazza. ero giovanissima. comunque io penso ancora a me come ad una ragazza. a volte anche come ad una bambina ma sto uscendo dal seminato) ci occupammo di pagare il conto.
Dunque, disse la signora tirando le somme, sono quindicimila lire ( o giù di lì, non ha importanza. era il 1978). Ok, dissi io con il portafoglio in mano e allungando i soldi.
No, no, pagate pure a mio fratello dentro. Ok, andiamo dentro e cerchiamo il fratello, sempre con i soldi in mano. No, no, è mia sorella che si occupa dei conti, pagate pure a lei. Ok, ma cominciavamo a romperci i portafogli di girare avanti e indietro. Torniamo fuori: dice suo fratello di pagare a lei. No, dateli a lui. Ok, entriamo di nuovo, poi ci guardiamo in faccia: questi i soldi, mica li vogliono. Forse è meglio che andiamo via.
Uscimmo uno dopo l'altro con la certezza di non aver rubato. Noi volevamo pagare e ci abbiamo provato davvero, ma non c'è stato nulla da fare. Quelli i soldi non li volevano. Non vi dico la bontà di quelle ricottine e di quei panini pieni di ogni bendidio.

morena fanti


La fuga

Fuggiva senza inseguitori. Fuggiva ed in quel correre vorticoso fendeva l’aria fredda a finire della notte, i vapori della terra, le fronde degli arbusti, i respiri della nebbia. Il sudore scendeva in rivoli gelidi lungo le tempie le guance, la bocca, il collo proteso, la schiena in avanti. Le mani a pugno scalciavano colpi nel vento. Un ritmo di corsa, un soffio d’affanno. La fronte contratta in quella ruga traversa a spezzare la pelle ancora soda compatta. Sulla schiena uno zaino malandato, liso al cordolo di contorno e quasi vuoto. Dentro una borraccia, mezzo toast rosicchiato, un pacchetto di fazzolettini. Non aveva soldi con sé, né libretto d’assegni, né carta di credito. Non una chiave.
I piedi battevano un tempo veloce, le scarpe di marca consunte donavano ancora al polpaccio una spinta d’elastico molle. Pensava al momento dell’acquisto, era grato alla commessa del “Pentatlon”, brutta come uno scorfano, ma così gentile, che l’aveva brillantemente consigliato. Non aveva badato a spese allora, ma ora di questo acquisto era pienamente soddisfatto. Gli tornavano utili scarpe così. Robuste, leggere per correre in fretta, per chi non poteva fermarsi, per raggiungere il cielo in quel punto lontano.
Aveva bisogno di correre. Era un fatto vitale. Seminare ogni angoscia. I pensieri alle spalle non gli davano tregua. La moglie depressa, il capo villano. Uno stronzo perfetto da augurargli ogni male. Lo isolava dal gruppo dirigenziale, lo rapinava di idee, succhiava il suo impegno senza riconoscergli merito e soprattutto l’aumento. Aveva bisogno di quei soldi. Progetti grandiosi. Una barca: almeno otto metri, un appartamento più grande, cambiare l’arredo e un’ amante da sogno.
Gli piaceva sognare, scaricare nel sogno ogni tensione, la corsa batteva il tempo dell’immaginazione. Non c’erano inseguitori, solo la vita, nel suo solito scorrere, mordeva il suo cuore.
Alle sette, tra appena mezz’ora, avrebbe dovuto essere pronto: giacca, cravatta e davanti un’altra dura giornata da direttore.

alivento




















domenica 24 agosto 2008

elogio della fuga


"Didò, dove sei finito... mi hai piantato con le pizze in mano e te ne sei andato... guarda che la mozzarella si rapprende, poi fa schifo....?"

Questo commento che ho lasciato a didò più in basso mi ha fatto venire in mente una cosa che mi è successa alcuni anni fa:

Al ritorno di brevi ma bellissime vacanze toscane presso volterra, ci trovammo, la mia famiglia ed io, all'ora del pasto, in una zona boschiva dell'appennino tosco-romagnolo.
Gli stomaci brontolavano, perciò senza indugi al primo cartello che indicava un posto di ristorazione svoltammo nella direzione indicata: un vecchio castello (completamente rimosso dalla memoria) con annesso ristorante.
Accecati dalla fame entrammo in una sala esterna situata sotto una grande tettoia e scelto il tavolo ci sedemmo senza fiatare.
Di lì a poco arrivò un cameriere con il menù e un cesto di pane che fu immediatamente aggredito ( il cestino) dai miei figli... d'accordo anche da me e da mia moglie.
Masticando un boccone cominciai a sfogliare lentamente il menù:
" Che cosa c'è stefano, perché fai quella faccia?"
La voce di Cinzia giungeva lontana e un pezzo di pane mi si era incagliato in un certo punto dell'esofago...
I prezzi erano spaventosamente alti!
Cominciai a cambiare colore, dal bianco cadavere al rosso tedescoiprimigiornidivilleggiaturaarimininelmesediluglio
e con calma - si fa per dire cominciai a ragionare sul da farsi. I minuti passavano inesorabili. Del cameriere ancora nessuna traccia.
Dopo un breve conciliabolo prendemmo l'unica decisione possibile.
Con non chalance ci alzammo e elegantemente ce la squagliammo.
L'uscita della sala era proprio vicino al corridoio interno al ristorante. In lontananza vidi arrivare il cameriere che si avvicinava sempre di più:
...e uno, fuori Luca, e due, Fabio e tre, Cinzia... quando fu il mio turno mi trovai proprio davanti all'uomo con la camicia bianca. Il suo sguardo - sorpreso - incrociò il mio - accigliato -. Con le sopracciglia inarcate sgranai gli occhi e con il dito indicai l'orologio e dissi con la faccia come il cosiddetto culo : " è mezz'ora che aspettiamo"... e quattro! Fanculo.
Sentì, finalmente, il boccone scivolare giù.
Sembrava fossimo scappati da Alcatraz, tanta era la sensazione di libertà!

E voi cari amici avete qualche episodio analogo da confessare... siete mai scappati da qualcosa, da qualcuno e cosa avete provato, vergogna, imbarazzo o piacere?
spedite le vostre storie... dopo, magari le raggruppiamo tutte assieme come tanti racconti.
stefano