domenica 24 agosto 2008

elogio della fuga


"Didò, dove sei finito... mi hai piantato con le pizze in mano e te ne sei andato... guarda che la mozzarella si rapprende, poi fa schifo....?"

Questo commento che ho lasciato a didò più in basso mi ha fatto venire in mente una cosa che mi è successa alcuni anni fa:

Al ritorno di brevi ma bellissime vacanze toscane presso volterra, ci trovammo, la mia famiglia ed io, all'ora del pasto, in una zona boschiva dell'appennino tosco-romagnolo.
Gli stomaci brontolavano, perciò senza indugi al primo cartello che indicava un posto di ristorazione svoltammo nella direzione indicata: un vecchio castello (completamente rimosso dalla memoria) con annesso ristorante.
Accecati dalla fame entrammo in una sala esterna situata sotto una grande tettoia e scelto il tavolo ci sedemmo senza fiatare.
Di lì a poco arrivò un cameriere con il menù e un cesto di pane che fu immediatamente aggredito ( il cestino) dai miei figli... d'accordo anche da me e da mia moglie.
Masticando un boccone cominciai a sfogliare lentamente il menù:
" Che cosa c'è stefano, perché fai quella faccia?"
La voce di Cinzia giungeva lontana e un pezzo di pane mi si era incagliato in un certo punto dell'esofago...
I prezzi erano spaventosamente alti!
Cominciai a cambiare colore, dal bianco cadavere al rosso tedescoiprimigiornidivilleggiaturaarimininelmesediluglio
e con calma - si fa per dire cominciai a ragionare sul da farsi. I minuti passavano inesorabili. Del cameriere ancora nessuna traccia.
Dopo un breve conciliabolo prendemmo l'unica decisione possibile.
Con non chalance ci alzammo e elegantemente ce la squagliammo.
L'uscita della sala era proprio vicino al corridoio interno al ristorante. In lontananza vidi arrivare il cameriere che si avvicinava sempre di più:
...e uno, fuori Luca, e due, Fabio e tre, Cinzia... quando fu il mio turno mi trovai proprio davanti all'uomo con la camicia bianca. Il suo sguardo - sorpreso - incrociò il mio - accigliato -. Con le sopracciglia inarcate sgranai gli occhi e con il dito indicai l'orologio e dissi con la faccia come il cosiddetto culo : " è mezz'ora che aspettiamo"... e quattro! Fanculo.
Sentì, finalmente, il boccone scivolare giù.
Sembrava fossimo scappati da Alcatraz, tanta era la sensazione di libertà!

E voi cari amici avete qualche episodio analogo da confessare... siete mai scappati da qualcosa, da qualcuno e cosa avete provato, vergogna, imbarazzo o piacere?
spedite le vostre storie... dopo, magari le raggruppiamo tutte assieme come tanti racconti.
stefano

12 commenti:

Anonimo ha detto...

Stessa cosa, anni fa :-) seduti in un caffè in galleria a Milano, in cinque, dalla campagna alla città. Avevo provato a dissuadere, esperta della tentacolare metropoli, ma nessuno mi aveva dato ascolto. Il cameriere porta la lista e ci lascia il tempo di ordinare. Apriamo, allungo la lista al marito e sottolineo col dito: caffè, seimila lire.
Ci siamo alzati all'unisono, che sembravamo quelli del nuoto sincronizzato, e ci siamo dati alla fuga.

Stefano Mina "un onesto pittore riminese" ha detto...

@annalisa
...mia moglie mi ha ricordato che mentre io ero in uno stato catatonico
è stata lei a suggerire: "ma che cavolo...ci alziamo e via, no?
w la fuga...liberatoria!
stefano

Francesco Di Domenico Didò ha detto...

Era il ’92, Mario era una lieve sardina che sguazzava nel carrozzino; Chiara, la peinteur che svolazza per l’ Indrè de France, era un rotondo palloncino di nove anni.
Quella mattina d’agosto si decise: gita in montagna. Napoli non ha montagne, si va’ al Taburno; il Matese è troppo lontano, faticoso per i bambini, il Taburno, la più brutta montagna del globo terraqueo, con poca vegetazione e senza corsi d’acqua, una specie d’Afghanistan campano... (continua)

Non è cattiveria: mi hanno cambiato turno, vado a letto, continuo domani...
Didò

Stefano Mina "un onesto pittore riminese" ha detto...

...non ti preoccupare didò, ti capisco, ah come ti capisco!
buona notte e buon riposo che qui nessuno ha fretta.
stephane ( ti ho mai detto che ho trascorso i miei primi 11 anni,meno sei mesi, in francia?)

Anonimo ha detto...

Sì, sì, non sarà cattiveria, e i turni son turni, ma lasciarmi così, appesa al Taburno, senza poter andare né avanti né indietro...

Anonimo ha detto...

beh, e allora, 'sto Taburno?

Anonimo ha detto...

Era il ’92, Mario era una lieve sardina che sguazzava nel carrozzino; Chiara, la peinteur che svolazza per l’ Indrè de France, era un rotondo palloncino di nove anni.
Quella mattina d’agosto si decise: gita in montagna. Napoli non ha montagne, si va’ al Taburno; il Matese è troppo lontano, faticoso per i bambini, il Taburno, la più brutta montagna del globo terraqueo, con poca vegetazione e senza corsi d’acqua, una specie d’Afghanistan campano... (continua)
-"Francè, gli zii mi hanno detto che questo monte è fantastico, ma portatevi una tanica d'acqua..."
Mia moglie, una ruvida tigre, a mezzo tra la regina Vittoria e Sabrina Ferilli (burbera come sua maestà, ma con le tette come la Ferilli: l'avrò sposata per amore?).
La Panda Fiat 750 aveva 4 marce, ma non servirono, ogni tanto se inforcavi la 3° era meglio non lasciare la frizione, lo facevi con affetto, era la 2°, la marcia nuziale di quella mulattiera! Fu bello stare li, perchè guardavi le altre montagne, il bellissimo Matese e l'inizio degli appennini, lui, il Taburno mesozoico, era meglio non rasentarlo con lo sguardo, un velo di tristezza da ritirata di Russia lo copriva ed un freddo terrifico lo spazzava (a valle avevamo lasciato 39, allegri, gradi). All'una del pomeriggio la tigre branì (Cerva?):"I bambini hanno fame:trova un ristorante!"
Alle 2, mentre Chiara, travolta dalla fame, cantava a squarciagola "...due elefanti, si arrampicavano sul filo di una ragnatela...", io mi arrampicavo tra tornanti e andanti (nel senso che spesso tornavo indietro dopo essermi perso)senza trovare neanche un rustico con una caciotta.
La madre di tutte le madri, la leonessa che vede i bambini deperire, mentre quel pirla del leone si crogiola al sole, mi colpì più volte sul sopracciglio con un'ombrello ("dove cazzo hai trovato un ombrello ad agosto?" - "era per proteggere i bambini dal sole, ora mi serve per proteggerli dalla tua inettitudine!").
Eccolo! Bar-Ristorante da Alfredo: entriamo? C'era da dirlo? Entrammo!
La sala con una decina di tavoli, dipinta di bianco-cielogrigio-quando-vorrebbe-piovere. I tavoli di fòrmica marron, alle pareti una vecchia foto di Papa Giovanni e quella di un cinghiale, pensai: dev'essere un posticino coi fiocchi, rustico e casereccio (lo ammetto, fui fottuto dalla foto col cinghiale, non mi resi conto che i cinghiali raramente si fanno fotografare seduti: dopo ripensandoci, intuìi che era un dagherrò del capostipite).
Un quarto d'ora dopo, quando Chiara aveva spelacchiato un cesto di margherite, spargendole sul pavimento, arrivò Attila.
Si abbottonava la giacca bianca velocemente, sbagliando le asole e inciampando su di una vecchia scopa si abbattè quasi sul tavolo e melifluamente chiese:"Preco?" (con la C)
"Che c'è da mangiare?"
Posizionò tre dita al centro del cranio e grattando della forfora che si staccava miracolosamente dai capelli stuccati di una odorosa Brillantina Linetti rispose: "Qualsiasi cosa!"
Come "qualsiasi cosa", diceva Tonia, mentre lui andò via per imbandire, questi non hanno neanche un menù?
"Dai, ci faranno cose genuine, preparate al momento!"
Attila tornò. Imbandì con un pezzo di sottocarta bianca da parati la tavola, poi la catarsi. Dopo essersi grattugiato la punta del naso prese un mazzo di posate da un cassetto, reggendole dalla parte dell'imboccatura e le posò a tavola. Tonia impugnò l'ombrello (spuntava da tutte le parti), io tremavo, con classe. Poi, il cameriere fece l'ultima, ficcò le mani in tre bicchieroni di vetrone infrangibile (le unghie nere di lutto toccavano il fondo opaco di calcare)e li posizionò a tavola.
L'urlo di Tonia squarciò la pace funerea del monte: "E basta! Via, via!"
"Chi io?" latrò il cane impomatato travestito da servo.
"No, noi!"
E trascinandoci come masserizie di un accampamento Rom, invaso dai naziskin, Tonia ci indusse ad uscire fuori, mentre il domestico quasi scappava in cucina.
Fu tutto un fuggi-fuggi.
Arrivai a valle con uno strano fumo che usciva dal cofano (freni) e con l'ombrello puntato nel fegato.
Poi trovammo un fast-food che stava quasi chiudendo e fummo felici (non ricordo se la notte facemmo l'amore, c'era un ombrello nel letto).
Didò

Anonimo ha detto...

c'è anche la mia, di fuga.
(niente pizza per me, ero in vacanza...peccato!)


La mia fuga, poco più di un anno fa.
È arrivato con le valigie a casa mia sei settimane dopo il nostro primo appuntamento, battendo sul filo di lana il traguardo dei miei primi trent'anni. E sono cominciate le montagne russe: sei mesi di felicità folle e di abissi terribili, in cui scoprivo sempre più quanto fossimo diversi, quanto quell'uomo che mi faceva sentire amata, unica e indispensabile mi stesse stringendo intorno lacci sempre più stretti e soffocanti. Niente più amiche, niente più cinema, niente più montagna o vela: solo lui ed io, una monade di passione e possessività insensata. Adorata come una dea ma costretta a rinchiudermi nella gabbia dorata della perfetta femmena 'e casa. La sensazione che mi mancasse l'aria. Il tarlo, sempre più profondo, che la rinuncia a me stessa non servisse a far funzionare gli ingranaggi di quel meccanismo meraviglioso e infernale in cui lui chiedeva sempre di più e io mi sentivo svuotare. Tutte le mie energie per lui, energie che non bastavano mai.
Finché un giorno, dopo l'ennesima, furibonda litigata, ho detto la più banale delle frasi: “Torno dai miei”. Quando ho chiuso la porta alle mie spalle, non sapevo se sentissi più intensamente la perdita o la liberazione.
Poche settimane dopo avevo in una mano il timone e nell'altra la scotta di randa e solo mare e vento intorno a me.

Anonimo ha detto...

Mio padre me lo ripeteva ogni volta:
“Qualsiasi cosa accada, non si scappa. La si affronta”
E io, tutte le volte, assentivo. Con grande serietà.
Era un uomo con delle convinzioni, e cercava di instillarle anche a me.
Però era anche piuttosto severo.
E se avesse saputo di quella nota sul diario, datami in circostanze piuttosto controverse dalla professoressa di italiano, avrei sicuramente passato un brutto quarto d’ora.
Dovete considerare che:
primo avevo 13 anni, quindi ero ancora passibile di punizioni corporali;
secondo era il 1975, epoca nella quale il Telefono Azzurro era ancora molto lontano dalla sua nascita.
Così presi la decisione di non dirgli niente, e di tentare di contraffare la firma di mio padre sotto alla maledetta nota.
Ad operazione conclusa, le due firme si assomigliavano come un gatto può assomigliare ad una portaerei.
Non avrei mai ingannato nessuno, e allora si che sarebbero stati dolori.
Fu mentre paventavo punizioni a base di frustate, ferri roventi e vergini di Norimberga, che come un cospiratore si palesò alle mie spalle uno dei miei migliori amici di allora.
“forse un modo di sfangarla c’è…” disse scuotendo una sigaretta immaginaria
“magari” risposi io con voce d’oltretomba. Poi, speranzoso “e sarebbe?”
“È semplice: tu devi semplicemente mangiare l’appuntatura di una matita: questo ti provocherà un tale mal di pancia che dovranno mandarti a casa… “
“Ma sei sicuro?”
“l’ho letto… “
Ero un ragazzino ingenuo, e poi che avevo da perdere? Appuntai un lapis per abbondanti 5 centimetri e buttai giù tutto il legno e tutta la grafite ottenuta. Poi mi misi in speranzosa attesa.
Non dovetti attendere molto: sarà stato il nervoso, sarà stato l’effetto placebo, ma di lì a poco nelle mie viscere si scatenò l’inferno. Era come se qualcuno mi strizzasse lo stomaco e cercasse di legarlo alla parte più nascosta dell’intestino con del filo spinato. Rovente.
Arrivò l’ora di Italiano. La professoressa fece l’appello e attaccò a spiegare. Nel mio intestino intanto si era scatenata una battaglia a colpi di piccone. A quel punto non ce la feci più: alzai la mano e mormorai “professoressa, non mi sento be…”
Il “ne” finale si sparse sul pavimento, insieme alla colazione, ad abbondanti succhi gastrici e a buona parte della cena della sera prima, che evidentemente il nervoso non mi aveva permesso di digerire, fra le urla di raccapriccio della maggioranza della classe, e il ghigno mefistofelico del mio amico.
Fu un tredicenne bianco come un nevaio quello che i miei genitori si videro riconsegnare da una bidella piuttosto schifata qualche decina di minuti dopo.
Ma della nota sul diario, da quel giorno, nessuno parlò più.

Stefano Mina "un onesto pittore riminese" ha detto...

@ tutti
chiedo scusa ma se non posto i vostri racconti è per una ragione molto semplice ... ho dei problemi con internet.hanno detto che mi stanno allargando la banda... spero facciano in fretta e che non sia doloroso...appena possibile sistemerò tutto. un saluto particolare a chicca e a mario che ha promesso una sua fuga... a presto e scusate ancora
stefano

wilcoyote ha detto...

Va be', spero che i problemi si risolvano. Io provo lo stesso a postarti la mia storia (la foto che hai messo accanto al titolo del post mi ha ricordato questa vicenda di quasi un decennio fa).

Ciao!


- Ma tu vesti sempre così classico?

G. aveva passato il palmo della mano sui miei pantaloni, all'altezza della coscia ed io non riuscii a trattenere un fremito, abortito tentativo di scostarmi. Per eccesso di cortesia (o di laico rispetto umano) rimasi al mio posto, abbozzando pure un mezzo sorriso, mentre rispondevo

- No, di solito preferisco i jeans, ma in questi giorni lavoro presso un cliente...

E giù a raccontare dettagli del mio lavoro che non fregavano a nessuno. L'importante era non far rimanere male G. E dissuaderlo da nuovi tentativi di contatto.
L'avevo conosciuto quando viaggiavo sulla linea ferroviaria Genova-Milano e prendevo l'intercity della 10,08.
A quell'ora non c'era molta gente che saliva sul treno, non era certo un problema trovare posto. Tuttavia usavo posizionarmi sul binario all'altezza delle carrozze di coda, per sfruttare la distribuzione gaussiana dei passeggeri e trovare spesso l'intero scompartimento libero, un'oasi di solitudine e silenzio prima del caotico CED che mi attendeva a Milano.
Due o tre giorni la settimana G. prendeva quel treno, aspettandolo nello stesso segmento di banchina su cui attendevo io.
Era un uomo sulla cinquantina, magro, non molto alto, il viso scavato, gli occhi che parevano febbricitanti. A parte un marsupio, non portava niente con sé. Per qualche tempo non ci furono contatti, al di dà di una rapida occhiata, un "riconoscersi". Arrivava il treno e ognuno di noi andava ad occupare uno scompartimento diverso.
Un giorno di particolare affollamento si sedette di fronte a me. Io leggevo, lui pareva contemplare una di quelle brutte stampe affisse sotto il ripiano dei bagagli. Al momento di scendere mi parve educato rivolgergli un saluto, a cui rispose a bassa voce.
Due giorni dopo lo ritrovai e, questa volta, scelse deliberatamente di sedersi nel mio scompartimento.
In genere sui treni leggo, ma se percepisco che qualche compagno di viaggio preferirebbe far due chiacchiere mi presto volentieri. Mi piace ascoltare gli altri, spesso mi fa sentire bene lo scambio di battute con viaggiatori sconosciuti.
Mi parve che G. avrebbe gradito un po' di conversazione ma che fosse troppo timido per iniziare. Così buttai lì qualche osservazione a carattere generale (non ricordo a proposito di cosa). Lui rispondeva a bassa voce e frasi brevi, con una voce vagamente nasale.
Ci presentammo, io raccontai brevemente del mio lavoro (lui non mi disse niente del suo), scoprii che G. passava spesso in bicicletta dal mio paese (a dire il vero, non ricordavo di averlo mai visto, e mai lo vidi dopo), che viveva da solo in un appartamento.
Alla ricerca di argomenti di conversazione più interessanti del tempo e del traffico, gli parlai di libri, di musica, persino, con cautela, di politica, ma pareva non gli interessasse nulla.
Alla stazione successiva entrò una persona e il nostro dialogo rapidamente terminò. Io ripresi a leggere, lui a concentrarsi sulla
stampa.
Contrariamente alle aspettative, lo trovai lungo il binario anche il giorno dopo. Mi salutò con una certa vivacità e, neanche a dirlo, si sedette di fianco a me, a mia volta posizionato accanto al finestrino.
Eravamo partiti da pochi minuti quando si allungò per tirare le tende. Ad un mio sguardo interrogativo rispose che la troppa luce gli dava fastidio. La cosa mi irritò, avevo tirato fuori un blocco note con appunti per un lavoro ed ero intenzionato a preparare alcuni schemi. E poi, la conversazione di G. non era granché. Comunque, feci finta di niente ed iniziai a scarabocchiare qualche grafico.
Poco prima di raggiungere la stazione successiva si alzò e tirò pure le tende della porta d'ingresso. Senza esserne richiesto, mi disse che così avremmo dissuaso i passeggeri che sarebbero saliti di lì a
poco ad entrare. Prima che potessi ribattere, si risedette ed iniziò a raccontarmi del suo giro in bicicletta del giorno prima, di come fosse ancora una volta passato per il mio paese.
Fu proprio mentre rispondevo con frasi di circostanza, seccato per
questo oscuramento imposto, che mi sfiorò la gamba, chiedendomi delle
mie preferenze in fatto di abbigliamento.

- Ma tu vesti sempre così classico?

- No, di solito preferisco i jeans, ma in questi giorni lavoro presso un cliente e mi è stato insistentemente suggerito di vestirmi come si deve.

- Ah, capisco. Sai, a me piace stare comodo. Per esempio, non ci crederai, ma mi trovo bene con mutande tipo perizoma. Le conosci?

- Credevo fossero tipicamente femminili
(ma di che va cianciando, questo?)

- No, no, ci sono anche da uomo. Sono comodissime, sai?

- Certo, certo...
(me lo immagino...)

Un po' imbarazzato, finsi di cercare qualcosa fra i miei appunti, nonostante la penombra. Lui non si diede per vinto.

- E a casa mi piace stare completamente nudo, avvolto in un accappatoio...

- Eh...
(che cazzo sta dicendo?)

- Ma... hai un orologio fantastico!

E mi prese più o meno delicatamente il polso desto (benché non sia mancino, ho sempre portato l'orologio a destra).
A questo punto avevo capito le intenzioni di G., ma la dannata cortesia mi tratteneva dal fare gesti bruschi per divincolarmi.

- Sì, me l'ha regalato la mia FIDANZATA

e intanto gli scostai la mano. Seguirono un paio di minuti imbarazzati. Nel frattempo il treno fece una fermata. Mi decisi in un attimo:

- Io scendo qui, oggi devo incontrare un consulente per quel
lavoro... be', insomma, buona giornata e alla prossima! Ciao!
Non ricordo se mi rispose. Scesi veramente dal treno e aspettai il
successivo, un'ora e mezza dopo, arrivando in ritardo.
Dopo quel giorno inizai ad aspettare il treno nella zona dei vagoni di testa. Le poche volte che incrociai ancora G. feci finta di non vederlo. Poche settimane dopo cambiai orari e non mi capitò mai più di incontrarlo. Di certo, non in bicicletta al mio paese.

Stefano Mina "un onesto pittore riminese" ha detto...

ciao mario, grazie per il racconto... sai che mi è successa una cosa simile quasi 30 anni fa... solo che ad andarsene era stato "l'altro"... non perché temesse le mie percosse - non sono mai stato particolarmente violento - no, semplicemente perché si era accorto che stava perdendo il suo tempo.
grazie ancora, mario